Io, Me e l'Altro

il ritorno di mr xD xD

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    Salve a tutti, è da un po che non mi si vede sul planet, ma molto (MOLTO) tempo fa ho scritto un testo che magari qualcuno ha letto "E se tu non fossi mai esistito" :cacp:
    sono tornato cresciuto, con uno stile narrativo maturato e con più passione di prima per la scrittura. Buona lettura allora :flower:
    p.s. Come qualcuno giù sa, sono molto a scrivere ma ce la metterò tutta per non aumentare troppo le distanze tra un post e l'altro

    Capitolo 1 – Cuffie

    «Give me a second, I need to get story straight...»

    .Fun -We are young



    Cammino. Cammino per i vicoli di Genova, in quell'intricato agglomerato di stradine che caratterizzano questa città portuale: mi si dipinge un sorriso mesto e sommessamente ironico se penso che gli architetti che secoli fa progettarono questo labirinto di corridoi e piazzette, probabilmente non accorgendosene, abbiano rappresentato la Vita. Sì, la Vita. Le somiglianze sono molteplici per gli occhi attenti, o più che altro interessati, come i miei. Il semplice fatto di essere un dedalo, seppur di mattoni, può descrivere in sé per sé ciò che finora io ho capito della mia Vita: si aggiungono particolari come le salite, discese, il continuo affacciarsi di visi spenti sulle strade, intervallate da qualche faccia simpatica e sorridente che dopo pochi istanti sparisce, dopo aver girato ad un angolo. Anche gli escrementi di cane per terra sono compresi nel mio pensiero poetico. Mi fermo un istante. Capisco solo ora che quel flusso di immagini e similitudini non è altro che una metafora già vista e utilizzata. Cado per pochi istanti ancora di più nella consapevolezza di essere uno dei tanti. Uno dei sei miliardi e mezzo che popolano questo pianeta. Sicuramente migliaia e migliaia di persone, facendo magari il mio stesso percorso, hanno avuto le mie stesse idee. Questo mi angoscia. Molto. Per quanto io ci provi, non riesco a staccarmi completamente dal pensiero comune. Sono rilegato, costretto e indotto ad avere pensieri già “usati”. Siamo in una società che avendo quasi del tutto esaurito le fonti di energia finora conosciute, o per lo meno finora utilizzate, incomincia a riciclare. Tutto. Perfino le idee. Quante volte ho avuto intuizioni che nella foga del momento mi sono sembrate azzeccate, perfino geniali e quante volte, gli stessi identici strazianti momenti, chiedendo in giro mi è stato rivelata la ripetitività o inutilità della cosa. Lo stesso fatto di “pensare” adesso mi sa di stinto, vecchio, utilizzato e maledettamente ammuffito. Questo è uno dei motivi che presento quando mi chiedono del mio continuo isolamento da tutto e da tutti. So che questa è solo una scusa e anche sciocca, che non regge un discorso ampio e profondo che chiunque con un briciolo di consapevolezza in più affronterebbe con me su questo argomento. Il vero motivo delle mie “cuffie” - che da cuffie immaginarie, che rappresentavano il mio non ascoltare le persone, ultimamente si sono trasformante in cuffie vere e proprie con le quali ascolto costantemente la mia musica – è assai più stupido e immaturo della maschera che metto solitamente. Dirlo, o soltanto ripensarci, mi fa salire i brividi dalla colonna vertebrale fino alla punta dei capelli: esso è la testimonianza di come io, nonostante appaia agli occhi degli altri come una persona da stimare o da schernire per il pensiero indipendente, sia fragile, ottuso e infantile. La verità è che odio ascoltare le idiozie che la gente dice. Mi rammarica pensare ad ogni discorso e ad ogni vocabolo sprecato, utilizzato semplicemente per riempire l'aria: la nostra società si basa sulla relazione tra persone attraverso discussioni di vario genere; e puntualmente, in ogni secondo, su tutto il pianeta, milioni e milioni di persone vaneggiano. Vaneggiano su qualsiasi tipo di argomento e in qualsiasi modo: si vaneggia mentendo, arrampicandosi sugli specchi, spettegolando, cercando temi di grande importanza di cui poter disquisire, rispondendo prontamente ad una domanda. Anche solamente ascoltando. Si diventa ipocriti, scontati. Ognuno è schiavo di questa azione che si presenta tanto vitale ed importante quanto inutile e superflua. In classe, quando andavo alle elementari -scuola cattolica con suore che “fungevano” da insegnanti- era appeso al muro un quadro con su scritto una frase che non mi scorderò mai: «Un gesto vale più di mille parole». Ovviamente essa si riferiva ad un contesto diverso, sicuramente religioso, ma è stato un ottimo spunto e così ho sempre cercato di lanciare la mia vita in quella direzione, evitando di parlare, perché ogni parola che mi usciva dalla bocca mi rendeva più ipocrita dell'istante precedente.
    Nel mentre che mi lascio andare a queste elucubrazioni mentali mi rendo conto di essere arrivato a casa. I piedi mi hanno guidato verso una destinazione già conosciuta e adesso mi permettono di varcare la soglia del portone del condominio. Il mio palazzo è abitato principalmente da anziani. Mettono tristezza. Per lo meno la maggior parte di loro. Difficilmente provo sentimenti così forti nei confronti di altre persone e quasi mai negativi. Forse esagero, non provo tristezza nell'osservarli. Sento tanta malinconia. Un illustre scrittore del '900 diceva che la malinconia è “la gioia di essere tristi”. Mi piace fare citazioni: in questo modo infatti riesco sia a dimostrare la mia capacità di relazione tra i vari argomenti, sia ad utilizzare parole riciclandole ma che mantengono sempre una loro freschezza e genialità. Sì, perché sono state pronunciate da persone intelligenti, individui capaci di distaccarsi dal pensiero comune oppure capaci di comprendere sfumature poetiche all'interno delle più comuni cose, come le emozioni, i valori e le parole. Forse solo così non si diventa ipocriti: utilizzando una espressione del genere si esprime chiaramente il fatto che non sono vocaboli a te appartenenti, ma semplicemente un'accozzaglia di parole che riflettono i tuoi pensieri, che espressi a modo tuo parrebbero stupidi e sconclusionati. Sto divagando troppo con i pensieri, ma mi piace concatenarli, creando intrecci inimmaginabili. Il mio è un continuo distacco dalla realtà: vedo le persone camminare stanche e sfaticate, felici e determinate, assorte nei propri problemi. Le vedo che conducono esistenze inutili, simili alla mia. Le vedo che sfastidiate evitano gli altri, sicuri di non poter condividere i loro meschini dolori con il resto del mondo. Questo rende la maggior parte di loro degli orgogliosi: gente che continua a rifiutare la comunione con gli altri che, per dirla con Leopardi, «è l'unico modo di riuscire a sopravvivere in un mondo in cui la Natura gioca con le vite degli esseri umani».
    Entro in casa. L'odore del “conosciuto” mi riempie il naso. Casa. Casa. Casa. Quali altre parole per descriverla? Le pareti sono di un tenue arancione, quasi del tutto ricoperte da ornamenti di vario genere come quadri raffiguranti visi infanti o immagini di panorami selvaggi del Centro Africa. Essendo un appartamento è relativamente spazioso: dico relativamente perché in confronto agli altri presenti nel nostro palazzo, il nostro è l'alloggio che appare (ripeto, APPARE) più ampio. Io e mia madre viviamo qui, svolgiamo la nostra misera routine, animata da misere relazioni con altri miseri individui che conducono misere vite. Mia madre è l'unica persona a cui tengo veramente e, finora, l'unica ragione della mia esistenza. Penso che sia così anche per lei, o forse è solo una mia illusione creata apposta per non capacitarmi del fatto che il mio è un pensiero utopistico. Poggio la borsa che portavo a tracolla in un angolo, vicino all'attaccapanni: pesava, ma come al solito ero troppo concentrato sulle mie sciocche rincorse mentali.
    Mi dirigo verso camera mia. All'entrata c'è uno specchio. Ultimamente è diventato quasi un rito per me osservarmi su questa superficie appena rientrato. Forse spero sempre in qualche tipo di cambiamento fisico. Qualcosa di inaspettato nell'aspettato. Un qualunque segno che possa testimoniare che dentro di me qualcosa è mutato. La guardo; non scruto me, ma la mia immagine riflessa. Mi spoglio lentamente, mi tolgo tutti gli indumenti, elimino ciò che è in più. Forse la mia è una metafora sulla vita, forse no. Forse mi credo più introspettivo e intelligente di quello che in realtà sono, forse no. Rimango nudo, fragile, in contemplazione di me stesso, ossia, rimiro ciò che gli altri identificano con me e viceversa. L'immagine residua della mia anima, l'ombra proiettata dalla mia mente in una matrice composta da fili intricati e confusi quali lo spazio e il tempo. Il corpo da quattordicenne in crescita mi fa socchiudere all'istante gli occhi. Ancora. Possibile che io abbia ancora lo stesso identico ed infantile aspetto di ieri?!? Non sono così. NON SONO COSI' IO. Vengo preso da una ira irrefrenabile, incontenibile; improvvisamente tutto il mondo circostante pare scomparire con lo scoppio spasmodico di una bolla di finta serenità. Incomincio a graffiarmi, pieno di rabbia. Prendo a scorticare la pancia leggermente gonfia, il torace e la pelle a contatto con le costole. Sento il sangue scendere lentamente, caldo sulle gambe, talvolta fermandosi all'incontro con il pelo fitto sul polpacci, talvolta gocciolando sul pavimento. Provo un sentimento contrastante nei confronti di quel liquido vitale: di primo istinto mi viene da assaggiarlo, provare con le papille gustative ciò di cui sono fatto, almeno per buona parte. Poi all'improvviso mi disgusta, la nausea aumenta a dismisura e il vomito comincia ad uscirmi irrefrenabilmente dalla bocca. Prontamente, riesco a svuotarmi nella tazza del gabinetto, infilandoci completamente la testa. E' il momento di esternare tutte le mie emozioni a proposito, gridare come non ho mai fatto; e lo faccio, fino a far fuoriuscire l'anima, un innovativo quanto senza speranze tentativo di suicidio. Urlo, a più non posso: il dolore per le ferite fisiche provocatemi, il forte rammarico per la mia condizione di instabilità mentale, il disgusto per tutto ciò che ho intorno, per tutto ciò che è il mondo. Sento la gola infiammarsi, ma ormai non posso smettere. E' un circolo vizioso di cui io sono vittima. Mentre sono in agonia, mentre sento crollare su di me la Terra, odo il girare di una chiave nella toppa del portone di casa: entra una donna di media statura, magra, con un vestito blu che termina con una gonna di molto sotto le ginocchia. Seno generoso, capelli neri fino alla vita e occhi grandi azzurri, faccia stremata e disillusa: è mia madre. Poggia con fatica il cappotto sull'appendi abiti verde mela nell'ingresso, cammina con i tacchi fino in bagno e mi vede. Io la osservo per pochi secondi. “Che bella donna...” penso: nel mentre che questo pensiero stupido mi assale la mente, lei comprende la situazione. In qualche istante il suo viso si dipinge di diverse emozioni, alcune impercettibili e incomprensibili, altre più evidenti: le salgono le lacrime agli occhi. Io sono in piedi, davanti a lei, senza vestiti e circondato da macchie di sangue, mentre ancora dal torace mi colano piccole gocce rosse. Rimane qualche lungo secondo sulla porta del bagno a fissarmi, lasciando trasparire tutta la sorpresa ma allo stesso tempo la tristezza. Dice una sola parola, ma talmente piano da far si che io non la senta; leggo invece il movimento delle labbra che scandiscono il vocabolo “Ancora” nella mia mente. E' già successo altre volte: come ogni cosa, è un gorgo dal quale non riesco ad uscire. Singhiozza, si avvicina a me e mi abbraccia.
    «Stai tranquillo, è tutto a posto...» mi sussurra all'orecchio. Io rimango stretto nel suo caldo abbraccio, impassibile. Non piango. Non voglio piangere e né ne sento il bisogno. Rimaniamo a contatto per un'altra mezz'ora, immersi entrambi nella nostra personale disperazione.


    Mi sveglio di soprassalto e guardo d'istinto l'orologio. Noto non con sorpresa che sono in ritardo per la scuola: quella stupida di mia madre aveva promesso di svegliarmi ma, come al solito, ha deluso le aspettative.
    Nonostante l'ora mi concedo un lento risveglio, stiracchiandomi e sbadigliando; guardo fuori dalla finestra e l'immenso panorama dei tetti di Genova mi riempie gli occhi. In fondo si vede il mare, una distesa di acqua che si estende apparentemente all'infinito. Mi vesto con jeans stretti, maglietta bianca attillata e camicia a quadri aperta. Ovviamente le scarpe sono Converse; mi osservo allo specchio: è importante per me il modo di vestirsi e curare il proprio corpo. Dimenticandomi nuovamente dell'orario, mi metto di traverso e guardo come sono di lato: ultimamente sono dimagrito moltissimo, finalmente incomincio ad avere l'aspetto che ho sempre inseguito. L'ultimo ostacolo è la pancia, che rimane ancora un poco gonfia, ma non ho fretta. Essendo un quindicenne non ho ancora l'aspetto da uomo, ma si vede che cresco a vista d'occhio. Mi tiro su il ciuffo biondo di capelli mentre rido per il mio narcisismo, ma il mio corpo non è il centro della mia vita, forse non ricopre neanche un ruolo secondario. I punti di riferimento nella mia vita sono la scuola, in cui eccello senza neanche troppa fatica, i miei compagni e i miei amici, con i quali esco ogni sabato, e la mia ragazza. Camille, il suo nome. Ormai saranno quasi due mesi che stiamo insieme. E' più bassa di me, dei bellissimi occhi azzurri e dei capelli corvini fluenti che le arrivano fino al bacino; il nostro primo bacio ce lo siamo dati alla nostra prima uscita da soli, è un ricordo dolce che tengo sempre vicino al cuore. Ma non è questo il momento per pensarci, adesso devo correre a scuola. Tralascio la colazione, dimentico la porta aperta; prima di uscire saluto mia madre con un freddo bacio sulla guancia, notando che mi fissa attentamente, in modo strano, quasi osservando qualcosa in me di non visibile all'esterno. Non ci faccio caso, molte volte ha atteggiamenti inspiegabili, solitamente la mattina. Chissà, forse sarà semplicemente stanca, magari non dormirà bene. Questi quesiti mi vorticano nella mente, paiono inseguirsi nei meandri del cervello, un giochino tra loro che a me occupa energie essenziali per la mattinata a scuola, così li cancello, cerco di far piazza pulita e corro. La cartella non pesa, non ostacola i miei movimenti, riesco ad arrivare al grande edificio giallo ocra senza problemi. Prima di entrare mi guardo attorno con circospezione, senza motivo. Il liceo è circondato da un grandissimo giardino dove usualmente trascorriamo la ricreazione; in fronte all'entrata principale è presente una grossa lastra di marmo bianco fissata ad un muro con grossi viti che riporta la scritta “Liceo Scientifico G.D. Cassini”. Mi sto perdendo nei dettagli, devo entrare in classe. No, il mio corpo non reagisce bene, o probabilmente sono io che metto questa scusa, come d'altronde faccio sempre. Sono abituato a mistificare la realtà persino ai miei occhi, così da non esserne responsabile: non avere il peso di ciò che mi circonda, di ciò che sono perché solo gli adulti hanno questo potere e dovere. Ma il mio intento non è forse quello di crescere? Quindi diventare uomo non significa anche questo? Perché non posso avere tutto subito, evitando certe strade? Insomma, Devo o Non Devo? Devo essere adulto, ma finché gli stessi “grandi” non mi riconosceranno come tale, non lo sarò mai. Purtroppo gira tutto intorno a ciò che pensa la gente, tutti facciamo ciò che facciamo in base al pensiero altrui: non metto i piedi sul tavolo perché gli altri non lo fanno, non posso ascoltare la musica ad alto volume senza cuffie perché agli altri da fastidio, non posso avere idee originali perché non è luogo comune averne. Io, tutto questo grande discorso, faccio finta che non esista e che non sia mai stato neanche pensato, perché capirlo mi porterebbe a cercar di cambiare le cose (da persona matura quale io credo di essere), e questo implicherebbe il coinvolgimento in una causa già persa in partenza. O forse consapevolizzare mi farebbe sentire chiuso in una morsa senza uscita, in una galera dove l'unica finestra presente sporge su altre celle chiuse, colme di persone come me, che cercano di render accogliente quel luogo, utilizzando una personale dose di immaginazione. Mi spavento per qualche istante del intricato pensiero a cui sono arrivato, non è da me fare ragionamenti pessimistici del genere. Sento che qualcuno mi chiama e mi risveglio dal complesso “acchiapparella” tra i miei pensieri; spaesato, noto una figura femminile all'entrata. E' Camille, che mi invita a seguirla, mostrandomi il suo orologio. LA SCUOLA! Corro dentro, le porgo un casto bacio sulle labbra di fretta e le prendo la mano. Insieme, ci affrettiamo verso la nostra classe. Il suo vestito blu lungamente sotto le ginocchia ondeggia dolcemente, nonostante la velocità.


    EDIT: messo sotto spoiler perchè "da un tantino fastidio agli occhi" ahahahah ... nn so mettere il "giustificato"

    Edited by ¬mr - 7/8/2012, 11:47
     
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    MR CAME BACK *_*
    Veramente bello. Lo sai, fra il testo è il titolo ho avuto un'idea di uno svolgimento della storia, probabilmente (anzi sicuramente) diverso da quello tuo, ti mando mp, jaja.
    P.s. ti consiglio di mettere il testo giustificato, da leggermente fastidio agl'occhi così, e poi, se ci vuoi ficcare la canzone we are young, magari presa da youtube, all'inizio, tanto meglio.
     
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  3. ¬mr
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    ahahah Grazie grazie, ti ho risposto all'mp :D
    Al più presto nuovi capitoli
    p.s. Non metto il video, perchè il resto della canzone non c'entra molto... solo quella frase, per dare inizio al racconto
     
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    Bof, io l'avrei messa, tanto è sottofondo mentre si legge, ma, vabbè, come ti ho detto, sembra una light novel, quindi, evitiamo.
     
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