La parola di Dio

thriller a capitoli... in prima persona...

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    Prima parte

    CAPITOLO #1 - IL CASO W.K.
    Mi chiamano W.K., e sono un serial killer.
    In realtà il mio nome è Steven Still e faccio il giornalista. Neoassunto presso una redazione locale, giorno e notte pedino le mie prede sotto la copertura della ricerca dello scoop dell’anno, quindi, delineate le loro quotidiane abitudini, passo alla fase della pianificazione. Appunto con precisione ore di uscite di casa, rientri, pranzi e cene, abitudini nel frequentare precise persone, informandomi quando necessario riguardo queste stesse frequentazioni. Dopodiché, stilo un resoconto atto a capire quale sia il miglior metodo per uccidere la preda senza dare nell’occhio.
    Sino ad oggi, ho ucciso quattro persone. Le modalità con cui i miei assassini avvengono sono sempre, inesorabilmente, le stesse: seguo la preda in un posto dove nessuno possa vederci. La stordisco, la lego e dopo qualche attimo di sadica tortura la finisco con il mio pugnale di dieci centimetri. Per questo sono noto con lo pseudonimo di W.K., acronimo di White Killer, che vuole indicare la mia abitudine di uccidere con l’arma bianca, il pugnale. Questo è tutto ciò che la polizia ha scoperto su di me.
    E la cosa mi eccita.
    Dopo quattro assassini, tutto ciò che sono riusciti a capire sul mio conto di serial killer è la cosa più palese, quasi banale: tutte le vittime sono morte accoltellate, quindi io sono solito accoltellare. Null’altro.
    Non una mia traccia, un’impronta, una goccia di sudore, un capello. Nulla. Sono stato perfetto. E così continuerò ad essere.
    In polizia ho diversi amici, fra i quali Daniel Hoplins e Jeremy Scott. Fra una battuta e l’altra, spesso nelle nostre conversazioni è uscito l’argomento “caso W.K.”, e con aria indifferente mi sono informato su cosa sapessero realmente di me.
    Non sanno nulla.
    E non possono certo immaginare di parlare con il diretto interessato, con l’uomo per il quale darebbero qualsiasi cosa per vederlo morto. Per vedermi morto.
    Mi sembra anche importante descrivere quali sono le mie vittime preferite: principalmente uomini di chiesa. Preti, vescovi, cardinali. Non fa differenza. Un mio profondo odio verso quest’entità onnipresente mi ha portato a pensare che la volontà di Dio, quella vera, sia sterminare coloro che in suo nome professano i propri interessi. Sono credente. Molto credente. Per certo più religioso di molti, moltissimi uomini che professano la parola dell’Altissimo. E mi sembra giusto che questi paghino.
    E oltretutto, non per essere blasfemo, ma in ciò che faccio mi ritengo un vero dio. Dopo quattro assassini, di tutto ciò che riguarda il mio essere W.K. la polizia ha capito soltanto come sono solito uccidere.
    Come mi piace uccidere.
    Detto questo, fra le mie vittime ne è scappata anche una non legata al mondo della chiesa. La terza, per la precisione, Edward Sullivan. Ma quella è stato una mia necessità, lo ammetto. Sallivan è stato l’unico a venire a sapere la mia vera identità. E non per suoi meriti particolari. Semplicemente, un mio errore. E lui si è trovato nel posto sbagliato, al momento sbagliato. Io avevo sbagliato, in quel caso. Sono umano, mi può capitare. Anche se generalmente in ciò che faccio sono più propenso a credermi divino. Ma per non divagare, sappiate solo che mentre compivo il mio secondo delitto, Sullivan mi ha visto nei dintorni mentre sinistro nascondevo il mio pugnale adorato nella manica del cappotto.
    Se ricordate, ho detto che le mie vittime erano state sino ad ora quattro. Ma la polizia indaga soltanto su tre di queste. La morte di Sullivan è infatti stata archiviata come uno dei tanti casi di violenza in periferia. Poco male.
    In ogni caso, ho già preparato il mio prossimo delitto. David Harty è stato inviato recentemente dal vescovo a supplire al precedente sacerdote della zona di Londra in cui vivo. Preciso: il precedente sacerdote è stata la mia prima vittima, e David Harty non è stato entusiasta di doverlo sostituire, temendo di fare la stessa fine. Che farà. In ogni caso, il nuovo arrivato ha subito fatto in modo di entrare nel mio mirino, e anche di prepotenza. Rispetto agli altri, infatti, che ho giudicati meritevoli di morire per comportamenti a mio giudizio scorretti tenuti in un periodo di attività che andava dai tre ai vent’anni, questo ha iniziato ad atteggiarsi male sin dal primo giorno, quando nella sua prima predica ha voluto dire “Preghiamo per…” non mi ricordo il nome “… che l’ingiustizia umana ha voluto rispedire agli ordini del nostro Dio.”
    Per chi se lo stesse chiedendo, sì, frequento le cerimonie religiose settimanalmente. E non ho accettato che ritenesse il modo in cui ho agito come l’ingiustizia umana.
    Io sono la volontà di Dio.
    Le mie vittime sono tutte coloro che vanno contro quest’ideale. E David Harty c’è andato contro da subito, e subito pagherà.
    E mentre vi racconto tutto ciò, ho preparato la mia lama, celandola come di consueto nella manica destra del pesante cappotto che quotidianamente indosso. La tengo all’altezza del polso, e con una lieve pressione dello stesso, tale lama fuoriesce per sette, otto dei suo centimetri circa, e con la massima riservatezza sono in grado di eliminare qualsiasi mia preda, di fronte o alle spalle. L’unica precauzione che prendo per la lama è l’applicare uno strato di carta tutto all’interno della manica, affinché una volta compiuto l’omicidio, il sangue della vittima rimasto sull’acciaio vivo non mi sporchi il cappotto. Inoltre, per la mia sicurezza e tranquillità, posso solo che ringraziare il mio hobby che fino a cinque anni fa praticavo abitualmente: la caccia. Grazie a questa, infatti, ai tempi che furono mi ero adoperato per ottenere un regolare porto d’armi, che oggi mi consente di possedere una pistola, arma da fuoco che non amo particolarmente, ma che quando entro in azione tengo nella fodera, legata alla cintura, per la sola certezza di avere una seconda possibilità qualora con la lama fallissi.
    Ma spesso dimentico un dettaglio: io non fallisco.
    Mai.

    L’inverno è ormai arrivato, e camminando per le vie del centro sento un’aria gelida sbattermi sul volto scoperto. Nella manica sento la lama, fredda, strisciare liscia sul polso. È una sensazione fantastica: vedo centinaia di persone passarmi accanto, e nessuna può immaginare ciò che io stia pensando mentre li affianco. Loro camminano immersi nei loro pensieri banali, comuni. Che tutti fanno nella loro vita. Io invece penso solo ad uccidere.
    Ma non per cattiveria, per voglia di farlo, o per divertimento.
    Io uccido per ordine divino. Ed è questo che mi fa credere di fare anche un buon gesto. E credo che anche la polizia che mi da la caccia, spesso, analizzando le vittime che mi lascio alle spalle, pensi al fatto che dall’istante in cui la mia lama ha trafitto mortalmente il malcapitato, la chiesa e tutto l’ordine sacerdotale ne abbia tratto un mino giovamento.

    Sono giunto alle porte della chiesa. Faccio il segno della croce ed entro, sedendomi in ultimo banco. Oggi non ho intenzione di fare nulla. Controllo solo. Mi guardo attorno. Tutti hanno i volti tirati, tesi dal freddo. Io invece no, o almeno non credo. Non ho freddo. Amo la sensazione di essere uno fra tanti. Mi sento come il giustiziere in una massa di imbambolati, che stupidamente cadono dalle labbra di una persona ancora più stupida di loro.
    Eccolo là, finalmente. In lontananza vedo David Harty camminare lentamente avvicinandosi all’altare. È sbucato da una porta infondo alla chiesa e ci viene incontro.
    Annoto: David Harty celebra la messa delle undici. Tutte le mattine. Lo verifico presentandomi a quell’ora alla cerimonia per tutta la settimana che viene. Inoltre, tiene anche la messa delle sei di sera, ma solo il martedì e il giovedì. Per il resto, ha una vita estremamente monotona e non ho alcun problema a riassumerla con: si alza, si reca in chiesa, tiene la messa mattutina, ascolta alcuni fedeli, esce e pranza, a volta in compagnia di fedeli o altri sacerdoti. Si reca nuovamente in chiesa, prega qualche ora, intervallando la preghiera ai confessionali per i fedeli. Quindi per le sei esce dalla chiesa, tranne martedì e giovedì, giorni nei quali celebra la funzione serale; i restanti giorni si reca a casa, dove cena e non esce più sino alla mattina seguente.
    Temo che in quest’occasione non mi divertirò. Mi è bastata una settimana a stilare il piano perfetto.

    È venerdì, l’orologio a polso che porto sempre con me segna le cinque e trenta. Esco di casa. La lama nascosta nella manica, la pistola in vita. So quello che sto per fare, e mi sento potente. Io sto per giudicare un altro individuo per la volontà di Dio.
    Perché io so di non essere come mi circonda. Io sento di essere superiore.
    La porta della chiesa non dista che qualche passo e la lancetta dell’orologio è avanzata, ora sono le diciassette e quaranta circa.
    Entro e vedo che vicino alla cabina in cui David Harty confessa i fedeli vi sono soltanto due signore. Mi siedo dalla parte opposta della chiesa in modo che non possano vedermi chiaramente in volto. Congiungo le mani e porto il volto fra queste, come per pregare. Ma in realtà, tengo soltanto sotto controllo la situazione.
    Bene, la prima fedele ha terminato la propria confessione. Con passo sereno abbandona il luogo sacro. Deve sentirsi sollevata, ora che sulla coscienza non ha più nulla. Come mi sento io, quando uccido. Perché sento che sulla coscienza della chiesa c’è un peccatore in meno.
    Da alcuni minuti la seconda donna sta parlando con David Harty. È quasi il momento di entrare in scena, e con sollievo noto che la porta della cabina, dal lato della signora, s’è socchiusa. Sta per uscire. Prima un piede, un lembo della gonna, poi anche l’altra scarpa fuoriescono. Altri peccati rimessi, perdonati dal peggiore dei peccatori. Ma la cosa sta per finire.
    Attendo ancora un attimo, che la signora esca. Non è rimasto nessuno in chiesa. In quel momento siamo soli, io e il sacerdote, la vittima e il carnefice.
    Mi alzo. La lama è stretta al polso, ne sento il gelo dell’acciaio.
    Mi avvicino alla cabina. Entro ed inizio a parlare.
    Attimi di serenità. L’alba è più chiara prima della tempesta.
    Fingo un pianto isterico, so qual è il mio obbiettivo. E lui abbocca. Vedendomi disperato, mi invita ad uscire dalla cabina perché possa farmi sentire la sua presenza reale, per farmi capire che mi è vicino. Eseguo ai suoi ordini, esco dalla cabina e lui fa altrettanto.
    Lancio un’occhiata tutt’attorno, analizzo che non vi sia nessuno. Con rapidità ho la sicurezza che siamo soli.
    E poi è un attimo.
    Uno scatto verso di lui, un colpo alla nuca e crolla al suolo.
    Estraggo la lama. I miei sadici giochi.
    Ma qualcosa va storto. Sento dall’entrata dei passi.
    Dannazione.
    Ora il cuore mi sale in gola, ma io so di poter essere più freddo del ghiaccio.
    David Harty è steso a terra, ma respira.
    Pongo fine alle sue sofferenze. Con la lama. Un colpo unico, maligno, purificatore.
    Il più è fatto, ma devo dileguarmi. Decido di correre il rischio maggiore.
    Corro verso la porticina infondo alla chiesa dalla quale ricordo era entrato il sacerdote una settimana prima. Intanto i passi all’entrata si sono materializzati in una figura che vedo ma non posso riconoscere. Sto correndo veloce. Sono di spalle, non può vedermi. Ma deve avere capito, perché si affretta sul corpo esanime del sacerdote, grida qualcosa, forse di fermarmi. Ho raggiunto la porta. La apro ed entro. Spero non vi sia nessuno al di là.
    E invece sono sfortunato. Un prete mi squadra malamente.
    «Non puoi entrare, giovanotto!» grida.
    Un istante. E non vede più nulla. La lama va dritta alla gola, apparendo dalla manica come per magia. Una vittima di troppo, penso.
    «Fermati! Dannazione, fermati!» ringhia il mio inseguitore.
    Ma non ho nemmeno il tempo di recepire il messaggio che da una seconda, minuscola porticina sono fuori.
    Mi disperdo fra la folla, rallento di colpo la mia corsa. Giro su me stesso di centottanta gradi e torno sui miei passi, giusto in tempo per vedere uscire dalla stessa porticina Jeremy Scott. Mi era sembrata una voce familiare, quella in chiesa. È il mio amico poliziotto di cui avevo accennato il nome. Sono indeciso sul da farsi. Lo fermo, faccio l’indifferente.
    Lui mi toglie ogni dubbio, mi si fa incontro ansimando.
    «Hai visto qualcuno uscire di qui?»
    «Non mi pare…» la mia freddezza è indescrivibile.
    Sono nato per fare il serial killer.
    Nuovamente ho portato a termine la mia missione. Nessuno mi ha visto. Nessuno nuovamente ha scoperto nulla. David Harty è morto, e con lui anche un secondo sacerdote di cui non sapevo nulla, ma certamente non sarà stato molto diverso dalla maggior parte dei colleghi, quindi, in fin dei conti, poco male.
    La parola di Dio è stata nuovamente compiuta.
    Sorrido lasciandomi alle spalle il mio buon, ignaro amico.
    Poi ripenso: si, questa volta la polizia ha un nuovo indizio. Il secondo prete, prima della morte, ha gridato, guardandomi, “Giovanotto”. Se Jeremy Scott ha sentito, come credo, la polizia ha una vaga idea della mia età.
    Ho ventitre anni. Poco male. Ci sono tanti giovanotti a Londra. Quasi infiniti.
    Non è un indizio rilevante.
    Torno a casa.
    Sono soddisfatto del mio operato.
    Poco sul tavolo un plico di fazzoletti di carta e vi poso sopra la lama che cola sangue di due diversi peccatori. La carta se ne intride. La purezza bianca viene contaminata dal vile sangue peccatore.
    Rimuovo anche lo strato di carta che avevo inserito nella manica del cappotto, proprio perché non si sporcasse. Cestino tutto.
    Quei fogli, una volta portati dalla nettezza urbana in discarica, non saranno di aiuto per nessuno. In casa non rimangono segni. Il cappotto è pulito come nuovo. La lama splende nuovamente del suo gelido color acciaio.
    Tutto è, nuovamente, perfetto.
    W.K. ha colpito ancora. E nuovamente, nulla si sa più che W.K.


    CAPITOLO #2 - DIO NON HA OSTACOLI
    E quindi la lista delle mie vittime ora contava sei individui.
    Quattro voluti, cacciati e puniti. Altri due, invece, necessità del momento.
    E la polizia ancora brancola nel buio, cercando anche solo un lumicino che possa chiarirgli un poco la strada. Però credo di non aver calcolato un piccolissimo, forse insignificante, dettaglio. Ho ripulito la zona di Londra dove vivo e la chiesa immediatamente più vicina.
    E ora?
    Dovrei continuare la mia opera? Se mi interrompessi, la polizia potrebbe circoscrivere questa zona come area di maggior concentrazione della ricerca? Potrebbero collegarmi alla morte di tutti gli uomini di chiesa? Forse qualcuno che conosce il mio pensiero riguardo al sacro e al profano, fra le persone che mi circondano, c’è: e se in qualche modo la polizia arrivasse proprio a quelle persone?
    Sento che sto perdendo la mia freddezza. La mia calma. Ma non devo. Il mio compito non è finito. Il mio compito non finirà fino a quando anche soltanto un individuo professerà la parola del Signore per interessi personali.
    Non ho che iniziato la mia missione, forse.
    Devo svagarmi.
    Scollegare un attimo.
    E per farlo, accendo la televisione. Sento il primo servizio. E dapprima trattengo le risate, ma poi non riesco. È più forte di me. “La polizia di Londra rassicura i cittadini” dice “W.K. è stato arrestato.” No, impossibile! Hanno arrestato qualcun altro, e su di lui hanno riversato le colpe di tutti i miei omicidi? Rido così forte da non sentire come prosegue il notiziario. Poi mi calmo. Voglio ascoltare attentamente. “Fredrich Pitt è stato fermato dalla polizia della città mentre nella propria armeria arrotava una lama di sciabola che, secondo gli inquirenti, potrebbe trattarsi dell’arma del delitto. Nonostante l’uomo abbia negato da subito, gli inquirenti sono certi trattarsi di W.K. L’ipotesi è stata anche confermata dalla testimonianza di un collega di Abram Defoille” la mia seconda vittima “che ha confermato che Pitt avesse discusso con Defoille il giorno prima della morte dello stesso.”
    Mi basta questo. Spengo la televisione e riprendendo a ridere maleficamente mi abbandono al divano che comodo mi accoglie. Fisso il soffitto: bianco, puro. Nessuno può contaminare qualcosa che è così in alto, penso, come il soffitto. Allo stesso modo, la mia missione è che nessuno contamini la parola di Dio per approfittarsene, perché quella Parola è troppo alta per i civili mortali. E io non sono un civile mortale, il sono il prescelto per questo compito.
    O sono solo schizofrenico?
    Non capisco perché mi capiti di avere questi pensieri. Subito lo rimuovo dalla mia testa. Sono il prescelto, altro che schizofrenico. Ma potrei farmi visitare da uno psicologo. Sarebbe divertente. Sì, lo farò. Non ho mai creduto negli psicologi. Ma in questa circostanza, se davvero hanno le abilità di cui si vantano, solo un buono psicologo potrebbe far affiorare la mia vera identità. Correrò il rischio per divertirmi ancora di più.
    E se davvero riuscisse a scoprire che io sono W.K.? Poco male. Morirebbe.
    Ora sono soddisfatto, così devo ragionare. Nessuno può fermarmi, ormai.
    Anzi.
    Forse sono davvero troppo superiore a chiunque altro, e continuando così mai nessuno riuscirà a scoprirmi. E mi annoierei. Mi annoierei dannatamente. E ora che ci penso meglio: se tale Pitt è stato arrestato, nessuno darà più la caccia a W.K. E io con chi mi divertirò?
    Devo fare in modo che W.K. torni ad essere ricercato. Che il suo nome ricomincia a fare paura.
    Colpirò di nuovo, il più presto possibile.
    Accendo il computer, velocemente muovo le dita sulla tastiera. Scrivo “Scandalo chiesa Londra recente”. Quattro parole chiave nella mia vita. Le quattro parole che mi permettono di identificare le mie vittime. Ecco. Ho trovato un nome: Arthur Collis.
    Accusato di pedofilia. Bene, con lui sono certo di migliorare il mondo.
    Mi informerò meglio.
    Sono o non sono un giornalista?
    Afferrò il cellulare che da qualche tempo ho abbandonato sulla scrivania accanto al computer. Il mio datore di lavoro mi ha chiamato sei volte, e non gli ho risposto. Lo richiamo, pronto al peggio.
    Risponde e nemmeno il tempo di farmi fiatare mi assale con una sfilza di domande che, una volta terminata l’ultima, dal numero ho dimenticato la prima.
    «Scusi, sto lavorando ad uno scoop.» mi giustifico soltanto «Entro una settimana, avrà la notizia da prima pagina.» e riattacco. Almeno ora saprà di non dovermi disturbare.

    Esco di casa.
    Non ho una macchina, non l’ho mai desiderata. Cammino, mi fa bene alla salute. Per quello che faccio mi serve essere scattante e pronto. E, oltretutto, la strada è un’ottima fonte ispiratrice. Con un po’ d’attenzione si possono notare mille situazioni da cui trarre spunto.
    Oggi nevica.
    Bianca e pura è Londra. Solo sulla strada il passare continuo dei mezzi rende la neve opaca, sporca. Bene, quello che sto pianificando di fare ripulirà leggermente quel velo di impurità che ricopre la città.
    Ma non devo dimenticare il mio obbiettivo primario.
    Fare scarcerare Pitt, in modo che la polizia capisca di aver sbagliato tutto. La polizia deve sapere di non potere competere con me. E non perché io lo dica. Semplicemente perché è ovvio. E anziché occuparsi di me, potrebbero incarcerare mille criminali minori, ladri di strada, assassini per amore. Io sono la volontà di Dio, non ho bisogno di essere ricercato: io ricerco, al massimo.

    Sono già a destinazione. Sto cercando Arthur Collis. Ho visto il suo volto solo in fotografia, la stessa fotografia che ho in tasca per riconoscerlo. So anche, dalle informazioni ricavate dall’articolo, che a causa delle accuse mosso contro di lui non svolge più compiti ecclesiastici quali confessare e celebrare messe. Partecipa solo alla vita di chiesa pregando e aiutando i fedeli che non hanno creduto alla sua colpevolezza.
    Ancora per poco.
    Lo vedo seduto al tavolo di un bar giusto di fronte alla chiesa in cui presta servizio. Ovviamente entro nello stesso bar e mi siedo con aria indifferente al tavolo accanto, proprio rivolto verso di lui. Non ho intenzione di nascondermi, per ora. Non ne ho motivo. Lo osservo attentamente. Non ha l’aria maligna ritratta sul giornale. Ma poco m’importa. Non sarà quest’impressione a salvarlo.
    Si è fatto portare una cedrata. Non so perché lo stia analizzando così a fondo. Forse perché ritengo la pedofilia l’atto più vile di questo mondo, e quindi in questo caso voglio conoscere ogni minima sfaccettatura del soggetto entrato nel mio mirino.
    Mi guardo un po’ attorno. Sono sorpreso da chi vedo avvicinarsi al mio tavolo. È Daniel Hoplins, il mio amico poliziotto. Lo invito ad accomodarsi con me. Mi diverto a giocare con il fuoco.
    «Cosa ci fai di bello da queste parti?» mi chiede sedendosi. Da le spalle alla mia prossima vittima.
    «Passavo per di qua. Tu, invece?»
    Mi fa segno con la mano di avvicinarmi.
    «Sono in borghese.» sussurra poi.
    Interessante, molto interessante. Sento di doverne sapere di più.
    Chiedo quale sia la causa di questa missione segreta.
    Senza fare gesti evidenti mi fa capire che sta pedinando la stessa persona che pedino io: Arthur Collis.
    «Visti i bersagli colpiti sino ad oggi da W.K., Collis potrebbe essere uno dei più a rischio nell’immediato futuro.»
    «Avete formulato un’ipotesi?» domando senza nascondere la curiosità.
    «Si. Riteniamo che gli obbiettivi di W.K. siano uomini di chiesa…»
    «Ovviamente.» mi sento in dovere di precisare.
    «… che abbiano qualcosa di losco nel loro passato o presente.»
    Allora la polizia si è svegliata, finalmente. Qualcosa l’ha capito. Forse devo cominciare a giocare più seriamente.
    «E quel Pitt? Ho sentito stamattina il notiziario…» dico io, perché me ne parli.
    Sorprendendomi, accenna una risata beffarda.
    «Quel poveraccio.» commenta poi.
    Non riesco a seguirlo. Glielo faccio capire e a bassa voce mi spiega tutto.
    «Quel Pitt è un nostro complice. È ben pagato per recitare il ruolo che recita. Così come quella notizia. È una bufala. Ma riteniamo che in questo modo il vero W.K. si esporrà maggiornamente, sentendosi al sicuro.»
    Questa non ci voleva. Maledizione.
    La mia mente, che nonostante agisca in nome di Dio so trattarsi di una mente criminale, in lampo ha analizzato tutto. E se anche i più non avranno capito la mia sciagurata posizione attuale, sono dannatamente fregato.
    Credo di aver saputo abbastanza, e per ora Arthur Pitt è, purtroppo, al sicuro. Devo assolutamente tornare a casa a riflettere. La mattinata è stata molto utile. Ma dannazione.
    Colgo l’occasione per farmi offrire da Hoplins la colazione che ho fatto: brioches e cappuccino, tradizionale per me.
    Sto per alzarmi dal tavolo, quando il poliziotto mi ferma.
    «Quello che ti ho detto è stata una chiacchierata fra amici, e tu non sai nulla. Ovviamente…»
    Annuisco sforzando un sorriso. Ma ho ben poco da sorridere, in questo momento.
    Mi allontano turbato dal gelo, ma forse io voglio credere che a turbarmi sia il gelo e non i miei maledetti pensieri che sinistri risuonano nella mia testa, prendendo la forma delle parole di Hoplins. Stavo per fare un passo falso e incastrarmi da solo. È andata bene.
    Devo stare più attento.
    Sento la necessità di uno psicologo.
    E di uccidere: uccidere Arthur Pitt.
    Anche se ora la cosa sarà dannatamente difficile.

    Mi siedo alla scrivania ma sono scomodo, la sedia è dura per pensare.
    Mi lancio sul divano ma sono scomodo, è troppo soffice per concentrarmi.
    Mi appoggio al muro ma sono scomodo, non posso stare in piedi a riflettere.
    È l’agitazione che mi rende così insofferente. Il meglio che posso fare è coprirmi, uscire di casa e sedermi sulla panchina più vicina al mio portone.
    E così faccio.

    Hoplins mi ha visto vicino a Collis.
    So che la notizia di Pitt è tutta una montatura per incastrare W.K., che guarda caso sono io.
    So anche che ora Collis è osservato speciale, e che ad occuparsene e Hoplins stesso.
    E infine, so che la polizia ha una teoria sul caso relativamente corretta.
    Arrivo quindi alla prima domanda: come uccido Collis, sorvegliato da Hoplins, senza che Hoplins mi scopra? Rifletto invano, il freddo sembra congelarmi le idee tanto da non farle muovere nella mia testa.
    E mentre sono lì seduto sulla panchina, il sangue mi si gela nella vene, il cuore è come se smettesse di battere.
    Lontano, vedo un puntino che si fa sempre più grande. E lo riconosco. È proprio Hoplins. Che diavolo ci fa qui? Cammina con aria circospetta.
    Velocemente mi alzo e mi avvicino ad un gruppo di persone che sono lì vicino e fingo di chiedere informazioni. Con questo espediente, riesco a scomparire dal suo campo visivo e contemporaneamente a tenerlo sotto controllo.
    Cammina piano, ogni passo aguzza un po’ di più la vista. Ora è arrivato di fronte al mio portone. Vi entra. Lo vedo citofonare, credo stia suonando proprio al mio campanello. Non ottenendo risposte, si allontana. Credo che se ne sia andato quando lo vedo ritornare, sempre cauto e lento, camminando nella direzione opposta.
    È chiaro: sta monitorando la zona, attendendo che io ritorni a casa, avendo capito che sono fuori.
    «Mi sente, signore?» mi chiede poi la donna a cui avevo chiesto informazioni, vedendomi svanito.
    «Grazie, grazie.» rispondo senza un filo logico e mi allontano il più velocemente possibile.
    Ho avuto un’idea.
    Mi apposto abbastanza lontano, in modo che Hoplins non mi possa vedere.
    Prendo il telefono che tengo in tasca e cerco in rubrica il numero del poliziotto. Fortunatamente lo devo aver memorizzato in qualche occasione. Aggiungo il prefisso in modo da rendere la telefonata anonima. Prendo fiato e cerco di rallentare il battito.
    Io sono freddo.
    Io sono freddo.
    Mi ripeto.
    Ho in mente un piano. Pericoloso, ma è l’unico possibile.
    Premo il tasto di avvio chiamata e attendo. Subito ottengo una risposta.
    È la mia unica occasione, devo giocarmela bene. Faccio la voce grossa, più grossa che posso. Devo sembrare arrabbiato. Molto. Imbestialito. E anche di più.
    «Hoplins, dove diavolo sei?!»
    «Ma chi è?» domanda quello interdetto.
    «Ma come chi è? Come ti permetti?» mi sento convincente. Prendo coraggio. Mi sento diventare nuovamente gelido. Ma ora non per paura: io non ho paura. «Sono il tuo capo! Dove diavolo sei?!» insisto.
    «Ma capo… gliel’ho detto…»
    «Che diavolo mi hai detto?!»
    «Ho un sospetto, una pista per W.K…»
    «E in base a cosa?» ho quasi finito il fiato. Il gelo non mi aiuta di certo.
    «Una testimonianza diretta ed una esterna.»
    «Fai presto allora, presto!» riattacco e prendo fiato.
    Attendo qualche secondo, immobile, piegato sulle ginocchia.
    È andata bene. Ho capito tutto, credo. E probabilmente sono ancora in tempo. Ma quell’Hoplins non è proprio stupido come pensavo.

    Rientro in casa non appena lo vedo allontanarsi.
    Credo proprio di aver capito tutto, dopo la telefonata, che francamente ritengo essere stata un colpo di genio, degno del più divino criminale. Io non ho rivali, e ne sono sempre più convinto.
    La mia deduzione è stata che Hoplins, dopo avermi visto sulle tracce di Collis, si sia informato sul mio conto, e probabilmente qualcuno doveva avermi visto sulla scena del delitto di una delle altre sei vittime precedenti, cosa impossibile da escludere, anzi probabile. “Una testimonianza diretta ed una esterna”: la mia teoria mi pare l’unica che dia un senso a questa affermazione. Ho anche potuto capire che il capo di Hoplins ancora non è stato informato dell’intenzione dello stesso di pedinarmi. Se così fosse, se Hoplins venisse messo a tacere, la polizia non potrebbe sapere nulla di questa pista che segue.
    Ripenso al pomeriggio, alla geniale idea della telefonata e decido di applicarla nuovamente.
    «Pronto, sono un parente di Daniel Hoplins, e da questa mattina quand’è uscito di casa non è più tornato. Sapete nulla?»
    «No, ci dispiace.» mi rispondono dalla centrale di polizia.
    Sono stato fortunato. Hoplins non è passato dalla centrale in giornata.
    Cordialmente ringrazio e saluto.

    È sera. Il mio orologio segna le diciannove e trenta. Sono ormai arrivato sotto casa del mio amico poliziotto. Citofono, non rivelo la mia identità o in casa potrebbe avvisare la moglie del mio arrivo.
    «Scendi, ti devo parlare.» dico rauco al citofono.
    «Ma chi è?»
    «Scendi.» fantastico, non mi ha riconosciuto, non può aver detto nulla a nessuno riguardo a chi incontrerà.
    Lo sento camminare lento nelle scale. La mia lama è pronta. Fredda nel polso, ma ora non sono agitato. Devo solo fare ciò che ho sempre fatto. Ciò che mi viene meglio. Uccidere.
    «Steven, sei tu!» mi dice non appena mi vede, ed è ancora sulle scale.
    Io non rispondo, fingo di accasciarmi a terra, come per un malore. Mi si avvicina subito.
    «Cos’hai Steven?» mi chiede portandomi un braccio dietro la testa.
    «Sei stato bravo, con le tue intuizioni…» sussurro in tutta risposta.
    Non ha tempo di capire ciò che ho detto. Dalla manica del cappotto faccio apparire la mia lama assassina.
    Ed è un attimo.
    Un istante fulmineo.
    E si accascia nella pozza di sangue che subito si forma ai suoi piedi.

    Rientro in casa. Poso la lama su un pezzo di carta. Rimuovo la protezione che metto sempre nella manica.
    E come le altre volte, cestinate queste due prove, la lama torna pulita, il cappotto nemmeno si accorge dell’accaduto.
    E anche l’unico che pareva avere capito qualcosa sul caso W.K. non può più dire la propria opinione. Hoplins è morto. Settima vittima.
    Arthur Collis sarà il prossimo, e questa volta non avrà nessuno in sua protezione.
    Perché la volontà di Dio non può essere ostacolata da nessuno, tanto meno da questi stupidi poliziotti, buoni solo a giocare a guardie e ladri.
    Dio non ha ostacoli.
    W.K. neppure.


    CAPITOLO #3 - DELIRIO DI ONNIPOTENZA
    Da alcuni giorni mi riecheggia nella mente quel nome, Hoplins… Hoplins… Hoplins…
    Come può essere arrivato sino a me? Come può aver capito di dover informarsi sul mio conto? Qualcuno, in giro, deve avere intuito la strada da seguire. E se quel qualcuno scopre che dopo aver collaborato con Hoplins, Hoplins è morto… presto tutta la polizia sarà sulle mie tracce.
    Devo uccidere per farmi passare questi tormenti.
    Arthur Collis è ancora per strada, sereno. Ignaro dei pericoli che ha corso. Ignaro che per lui, la polizia ha perso un agente, e io un amico. Ma è stato necessario, e non mi pento.
    La volontà di Dio me l’ha richiesto. Io ho solo obbedito.
    Questa mattina tutti i giornali e i notiziari aprivano con la notizia di maggior rilievo: “W.K. colpisce: questa volta la vittima è un agente della polizia.”
    Sono famoso. Mi piace la cosa.
    Mi piace la sensazione quando, camminando fra la folla per strada, so di essere l’uomo che tutti cercano e che nessuno può trovare. Mi piace avere qualcosa di grosso da nascondere. Sentirmi l’eletto in una massa di comuni mortali, specie da cui sento d’essere ben distinto.
    Io sono progettato da una volontà superiore, ed è il momento di metterlo in mostra.
    Forse uccidere un poliziotto è stata una caduta di stile.
    Me lo ripeto più volte sino a convincermene. Devo rialzare la testa. Far in modo che a preoccuparsi di essere nel mirino di W.K. siano nuovamente gli uomini di chiesa, chi professa una parola troppo elevata per i propri interessi.

    Osservo la mia lama assassina abbandonata da alcuni giorni sul tavolo. È l’ora di rimetterla in uso.
    Dopo avere ucciso Hoplins, per tre giorni ho pensato di scomparire dalla scena. Ora è il momento di rientrarci prepotentemente. Non ho voglia di pianificare come mio solito.
    Non ne ho proprio voglia.
    Delirio di onnipotenza, forse, o sicurezza nelle proprie capacità.
    Fine: W.K. non pianificherà più nulla.
    E oggi tutta Londra, tutta l’Inghilterra, tutto il mondo lo saprà.
    Prendo la lama, indosso il cappotto, nascondo l’arma fredda nella manica, attaccata al polso. Tutto come di consueto. Controllo la pistola che tengo nel fodero: è carica, mai usata. I proiettili sono tutti nel caricatore, vogliosi di uccidere. Ma spero che non sia necessario. Inserisco la sicura e la riposo nel fodero.

    Nel momento in cui esco di casa, il destino di Arthur Collis è scritto.
    Cammino fra la folla provando la sensazione che già ho descritto. Tutti sono indifferenti alla mia presenza, ignari del pericolo. Ma io, io no. Controllo costantemente tutto ciò che mi avviene accanto.
    Nevica forte, è difficile tenere gli occhi aperti. Tutto è bianco, puro. È giusto ripulire ciò che sgarra da questa perfezione. Ed è quello che ho intenzione di fare.
    La chiesa dove il pedofilo, o presunto tale, presta servizio è già in vista. Lontana, ma cammino veloce e in pochi passi ne riesco a definire con precisione i dettagli. Noto anche che la mia preda sta uscendo proprio in quell’attimo dalla porta principale.
    Meraviglioso.
    Sono stato fortunato.
    Lo seguo. Oltrepasso due pattuglie di polizia: dopo la morte di Hoplins, la città è controllata in ogni anfratto. Rimedierò anche a questo inconveniente.
    Collis si ferma a parlare con due individui. Prontamente arresto il mio passo spedito proprio di fronte ad una locandina. Fingo di interessarmi ma irrimediabilmente un occhio mi ci cade davvero. Sono sempre io l’argomento più interessante: “Polizia attaccata da W.K.: una vittima nella notte.”
    Non era notte, ma poco importa. Chissà a che ora hanno ritrovato il cadavere.
    Intanto noto che Collis si è rimesso in marcia. Bene, faccio lo stesso. Lo tengo sott’occhio. Sono a dieci metri circa da lui, forse un po’ di più.
    Poi si infila in un portone e scompare.
    Mi fermo a riflettere su come agire, ma poi ricordo ciò che mi ero ripromesso la mattina prima di uscire: improvvisare. Improvvisare sarà la mia nuova parola d’ordine.
    Senza ragionare quindi raggiungo il portone dov’è entrato il sacerdote un attimo prima ed osservo i nomi sul citofono. Collis è all’interno sei.
    Salgo le scale, passo accanto ad una donna che contemporaneamente sta scendendo. Potrebbe avermi visto in faccia. È non è un problema da poco.
    Improvvisare.
    Mi ripeto nuovamente notando di aver avuto la tendenza a rallentare il mio passo per riflettere.
    Eccomi davanti alla porta di casa del pedofilo. Il numero 6, in alto, mi indica che sono nel posto giusto. Sul campanello il nome non c’è. Suono alla porta di casa. Solo dopo alcuni attimi qualcuno viene ad aprirmi.
    È Collis, in persona. Ho un sussulto. Cosa faccio? Lo uccido così? La lama fredda batte sul polso, ricordandomi di essere pronta ad agire.
    Improvvisare.
    Penso nuovamente.
    «Sacerdote!» esclamo. Quelle parole mi sono uscite di bocca di loro propria iniziativa. Non le ho volute dire io. Poco male. Improvviserò. «Ho bisogno di parlarle.»
    Mi fa entrare nell’appartamento e mi conduce in un salotto dove mi siedo su una sedia, proprio di fronte a lui.
    Mi guarda.
    Si, ha proprio gli occhi del pedofilo. Lo sguardo perso nel vuoto, le iridi scure. Ha il volto della cattiveria. Sarà la vittima con cui mi divertirò di più.
    «C’è qualcuno in casa? Disturbo?» mi assicuro di non trovare brutte sorprese.
    Fortunatamente risponde come desidero. Siamo io e lui. Soli. La sua fine è segnata.
    Appena ricevo la risposta scatto in piedi e lo spingo a terra, facendo ribaltare la sedia su cui è seduto. Ed una volta che è a terra lo colpisco con il gomito sul capo. Chiude gli occhi. Porto due dita proprio sotto il suo mento, leggermente a lato. Il cuore pulsa. È soltanto svenuto.
    Come desideravo.
    Non mi oriento in quella casa che non ho mai visto. Non ho pianificato nulla. Vado a tentativi, apro varie ante. Dopo due minuti in cui giro senza meta torno dalla mia vittima che è ancora a terra. In mano ho una corda, molto lunga.
    Isso nuovamente la sedia sulle gambe, ci sbatto sopra il corpo inerte di Collis e lo lego in modo che non possa muoversi. Ora sono più tranquillo, non rischio più nulla. Torno in cucina, l’ho visitata prima cercando qualcosa con cui legare la mia preda. Riempio un bicchiere d’acqua. Gelida come la neve. La neve bianca e pura che vedo cadere fuori dalla finestra.
    Sto compiendo la volontà di Dio. Dio ha scelto me per far si che quella neve rimanga candida.
    Verso il bicchiere d’acqua in faccia a Collis che di colpo rinviene. Mi guarda atterrito.
    Leggo nei suoi occhi la paura.
    Questo è ciò che W.K. vuole vedere. Che io voglio vedere .La cosa mi eccita. E molto.
    Estraggo la lama che tenevo nascosta nella manica. Gioco un po’ con il mio sacerdote pedofilo. Gli infliggo lievi ferite che non possano nuocergli troppo, ma che lo facciano soffrire.
    Aggiungere: oltre a “Improvvisazione”, la mia seconda parola d’ordine sarà “Crudeltà”.
    Delirio di onnipotenza. Lo sento, lo penso. Ma non riesco a fermarmi.
    Rido sadicamente, come un folle, un pazzo. Sto perdendo il controllo di me? No, sto solo facendo ciò che mi riesce meglio. Ciò che devo fare per progetto divino.
    Dalle lievi lacerazioni sulla pelle, Collis perde sangue. Poche gocce, ma a terra, nei dieci minuti circa che sono passati dall’inizio del mio sadico gioco si è formata una bella pozzanghera.
    Poi un inconveniente. Suonano al campanello della porta. Sento il cuore schizzarmi in gola.
    Suonano ripetutamente.
    Chi diavolo sarà?
    Improvvisazione. Penso di avere un po’ di tempo. Forse se non ottengono risposta, se ne andranno. Invece sento inserire le chiavi dell’appartamento nel chiavistello. Chi può avere le chiavi di casa Collis? Ma certo, una donna delle pulizie. Non sbaglio nell’intuizione.
    Non sbaglio mai. Corro a nascondermi dietro un muro. La porta si spalanca lentamente.
    Preciso: Collis si trova legato ad una sedia nel soggiorno, e per arrivarci è necessario percorrere un lungo corridoio e voltare a destra. E io sono appostato proprio dietro quella svolta. Inoltre lui ha la bocca bloccata da un pezzo di scotch, quindi non può gridare o avvertire del pericolo.
    Ma dall’ingresso sino al soggiorno, una leggera scia di sangue disegna il percorso da seguire.
    Sento la donna agitarsi, borbottare qualcosa. Si chiude la porta alle spalle.
    «Signor Collis, sta bene? Dov’è? Cos’è questo sangue?» mi viene incontro.
    La sento camminare. I suoi passi sono caratterizzati da un incedere discontinuo. Ha paura. È terrorizzata. Lo posso sentire.
    Sono pronto. È molto vicina. Il battito del mio cuore lo percepisco dal polso, che mi pulsa sul freddo acciaio della lama. La donna non è che a qualche centimetro da me. La vedo girare.
    Ed è un istante.
    Lei mi intravede ma non può fare nulla.
    Sferro un colpo secco, deciso, crudele. E passa a miglior vita.
    Alle mie spalle vedo Collis agitarsi impotente sulla sua sedia.
    Otto vittime, con la badante. E fra poco saranno nove.
    Nessuno nuovamente mi ha visto. W.K. non sbaglia. Non sbaglia mai.
    Basta, il gioco sta andando troppo per le lunghe. Collis sta perdendo i sensi. Ha perso troppo sangue. Ai piedi della sedia s’è formata una vera pozzanghera.
    Decido di fare un’ultima cosa prima di porre fine alle sue sofferenze.
    Corro in cucina, rovisto un po’ fra gli scaffali: trovato.
    Il sale.
    Se è davvero un pedofilo, quella sofferenza non sarà nulla rispetto a quelle che può aver fatto passare a degli innocenti bambini. Ma almeno sarà una punizione simbolica.
    Con una risata maligna verso senza badare alla quantità il sale sulle lacerazioni di Collis.
    Dev’essere una sofferenza atroce. Lo vedo agitarsi sulla sedia, contorcersi, due lacrime gli solcano il viso. E intanto rido, pervaso da un senso di soddisfazione e piacere.
    Poi è tutto finito. Il mio gioco si è concluso.
    Lo colpisco un’ultima volta al collo.
    La volontà di Dio è compiuta. Per mia mano. Io sono l’eletto.
    Delirio di onnipotenza, lo so ma non me ne interesso.
    Ripulisco tutto ciò che ho toccato con attenzione maniacale.
    Nuovamente nessuna impronta o traccia. Nessun indizio di alcun tipo.
    Io sono W.K., io sono perfetto.

    Mi allontano nel gelo polare della giornata.
    Fa più freddo del solito, ma vedo che la neve che cade è più bianca di sempre. È merito mio forse, o più probabilmente è solo una mia impressione.
    Ma sono felice, sadicamente felice, malignamente felice.
    Io esercito la volontà di Dio, perché la volontà di Dio è la mia volontà.
    Forse sto iniziando a ritenermi Dio.
    Delirio di onnipotenza.
    Lo so e non me ne interesso.
    Sono troppo perfetto in ciò che faccio per interessarmi a tali sciocchezze.
    Io sono W.K., improvviso e sono crudele.
    E mi piaccio.
    Mi piaccio dannatamente.

    È notte fonda. La mia sveglia digitale mi dice che sono le tre di notte.
    E io non riesco a dormire. Ripenso allo sguardo perso nel vuoto di Collis prima di morire. Mi rilassa.
    Rifletto: se uccido con una qualche logica, come ho fatto sino ad oggi, la polizia può risalire a me ripercorrendo a ritroso tale logica. Devo quindi abbandonare ogni schema. L’improvvisazione è davvero la via da seguire. Infondo, sono troppo perfetto per sbagliare, anche improvvisando.
    Io non sbaglio.
    Fendo il buio con gli occhi, lancio uno sguardo attraverso lo spiraglio lasciato dalle scure chiuse della finestra: non nevica più, direi.
    Domani la polizia avrà due nuove vittime su cui indagare. Ma nuovamente non giungeranno a nulla. Nulla più del consueto, o forse sì: capiranno la mia crudeltà, la mia nuova imprevedibilità. Capiranno che nessuno può fermarmi. Che non ci devono provare. O Hoplins avrà compagnia.
    Poi ho un sussulto: una donna mi aveva visto mentre salivo le scale nel palazzo di Collis.
    Maledizione!
    Quindi un minimo errore l’ho commesso, questa volta. Se gli inquirenti la interrogheranno, lei dirà per certo di aver visto un volto sconosciuto proprio in quel palazzo, proprio in quel pomeriggio. E alla domanda: “Era un ragazzo?” risponderà di sì. Poi tracceranno un identikit, e forse sapranno qualcosa di utile, per una volta.
    Avranno un’idea di cosa cercano. Forse domani mattina dovrei preoccuparmi di metterla a tacere.
    Ci penserò.
    Per il momento, mi limito a rivedere nella mia testa l’espressione terrorizzata di Collis prima di morire, e con il sorriso stampato sul volto, chiudo gli occhi.


    CAPITOLO #4 - IO NON SO PERDERE
    Apro gli occhi e vedo che il sole è già alto. Che ore sono? Squadro l’orologio digitale sul comodino: le undici e ventuno.
    Ancora stordito mi caccio sotto la doccia gelida. Mi riprendo dallo stato comatoso in cui mi trovavo. Ripenso alla giornata precedente e mi ricordo cosa devo fare questa mattina: andare a cercare l’unica testimone del mio duplice omicidio a casa Collis.

    Oggi non nevica. Anzi, sembra tornata la primavera. Indosso la sciarpa solo per essere più coperto quando mi avvicinerò alla zona che immagino maggiormente presidiata.
    E non mi sbaglio.
    Arrivato in zona, noto subito che nel portone di Collis vi sono almeno tre uomini della polizia, e tutt’attorno voltanti passano continuamente come a setacciare la zona. Temo che mi sarà impossibile identificare la donna che il giorno prima mi ha visto.
    Forse farei solo meglio a scomparire.
    Ma… la volontà di Dio che si ritira? Io che mi arrendo?
    A malincuore sento che quella al momento è l’unica cosa da fare.

    Sdraiato sul letto fisso il soffitto, terribilmente vuoto come vuota è la mia testa di idee. Idee che potrebbero salvarmi, in questo momento.
    Maledizione!
    Io, l’eletto, in difficoltà.
    Accendo la radio. Sulla prima stazione che mi capita a tiro sta passando una canzone che sembra orecchiabile. Decido di lasciarla. Devo rilassarmi. Devo calmarmi. Ragionare a mente fredda.
    Poi d’un tratto la musica si interrompe.
    «Edizione straordinaria del notiziario radio. Notizia dell’ultima ora. Nuovo colpo di W.K. in mattinata!» annuncia lo speaker.
    Rimango immobile. Che diavolo sta dicendo? Sarà una nuova trappola della polizia? Io non ho fatto nulla in mattina. Non ho potuto fare nulla.
    Torno ad ascoltare con attenzione.
    «E’ stata uccisa quella che pareva essere l’unica testimone oculare del delitto del sacerdote Collis e della signora delle pulizie che ogni giorno si recava a casa sua, e con lei s’è perso anche l’identikit che gli inquirenti avevano tracciato. Sembra che nessuno sia stato in grado di ritrovarlo. W.K. lo deve avere portato via con se.»
    Il notiziario termina com’era iniziato ridando spazio alla canzone.
    Ma io non capisco.
    Se questa notizia non fosse una farsa come quella di Pitt, che diavolo sarebbe successo? Prendo il cellulare. Scorro velocemente tutti i nomi in rubrica. Ne evidenzio uno preciso e avvio la chiamata.
    «Scott, che diavolo è successo? Tutte le stazioni radio si sono bloccate per dare l’annuncio di un nuovo omicidio di W.K.!» non devo nemmeno fingere di essere sorpreso.
    «E già Steven. Finalmente avevamo trovato una testimone oculare che ci aveva fornito un identikit molto dettagliato, Laura Queen.» mi conferma Jeremy Scott «Ma W.K. l’ha messa a tacere, e l’identikit è scomparso nel nulla.»
    Tolgo il disturbo all’agente. Ma ciò che mi ha detto non è vero.
    Non ho ucciso nessuno, io.
    W.K. non ha colpito.
    Chi è che s’è intromesso?
    Riflettendo a mente lucida, chiunque sia stato ad eliminare la scomoda testimone, mi ha fatto un gran favore. Ma chi diavolo può essere stato? E perché?
    Odio non riuscire a capire le cose. Odio sentirmi preso in giro.
    Io che non sbaglio mai. Io che sono l’eletto, il prescelto, la volontà divina in terra. Chi può aver ritenuto che mi servisse un aiuto? Io non ho bisogno di nessuno. Soprattutto, non di un comune mortale.

    Sono così tormentato che preferisco uscire di casa, respirare aria fresca, riflettere a mente lucida.
    E quando torno, trovo una sorpresa. Nella mia cassetta della posta giace un cd. Lo prendo in mano, lo giro fra le dita. Nessuna scritta o indicazione. E quando sono uscito di casa non c’era, ne sono certo.
    Rientro nel mio monolocale ed immediatamente lo inserisco nel computer. L’analisi mi indica che si tratta di una traccia audio. La avvio. Non so perché, ma ho un pessimo presentimento.
    Parte una voce metallica. Stridula e graffiante.
    «Ciao W.K.»
    Rimango di ghiaccio. Il cuore mi salta in gola. Mi sento paralizzato.
    «Sono certo che tu vorresti ringraziarmi per il favore che ti ho fatto questa mattina. Non è così?» deve riferirsi alla testimone oculare trovata morta. È l’individuo che cerco a parlare.
    «Da quanto dicono i notiziari, ho fatto un ottimo lavoro, un’imitazione degna dell’originale: tutti ti attribuiscono anche questo delitto. Mi congratulo con me stesso.»
    Sento la rabbia esplodermi dentro.
    «Forse tu ti starai chiedendo chi sono, come ti ho scoperto. Beh, sappi soltanto che Laura Queen, la testimone che ti aveva visto e che ho provveduto a far tacere, ha saputo fornire alla polizia un identikit così dettagliato che, una volta entrato in mio possesso, con poche ricerche sono riuscito a giungere sino a te. E se hai ascoltato questo cd sino ad ora, credo di non aver sbagliato persona.»
    Dannazione. Chi è che osa prendersi gioco di me? Darei qualsiasi cosa per averlo davanti a me, subito, di persona, e non una stupida registrazione modificata al computer.
    Intanto la voce metallica continua a infierire sul mio orgoglio già umiliato. Qualcuno, per ora, si sta dimostrando superiore di me. E io odio chi vuole dimostrarsi superiore.
    «Per rassicurarti, sappi che non ho intenzione di denunciarti alla polizia per farti arrestare, né tanto meno rendere pubblico il tuo identikit. Il mio unico desiderio, infatti, è ucciderti con le mie stesse mani e far finire il tuo mito nel dimenticatoio.»
    Non riesco a trattenermi. La rabbia e il senso di sfida che mi pervade mi fa scoppiare a ridere, una risata maligna e amara. Cerco solo di nascondere il fatto che qualcuno mi sta umiliando.
    Ma io sono superiore, a prescindere, lo so. Sono la volontà di Dio. Non sarà certo uno stupido con manie di protagonismo a placarmi.
    «Indago sulla tua identità dal tuo primo omicidio, che ormai risale a più di un mese fa, come ricorderai.»
    Era il 28 di settembre, lo ricordo con esattezza poiché era il giorno del mio compleanno. E come regalo, mi sono regalato la fama che ancora tuttora ho: la fama di W.K.
    «Non ti annoierò più a lungo. Anzi, voglio lasciarti a pensare, a struggerti. So che lo stai già facendo. In questo mese abbondante ti ho analizzato con attenzione, omicidio dopo omicidio. Io e te non siamo molto diversi: vogliamo solo essere i migliori. E so che dopo questo messaggio non vorrai altro che la mia morte. Bene. Se vorrai incontrarmi, sii presente al funerale del tuo amico Hoplins, fra quattro giorni in cattedrale. Io ci sarò. Un saluto affettuoso.»
    La registrazione metallica termina così.
    Rimango basito osservando la schermata del computer tornare nera, e un messaggio che mi chiede se desidero riascoltare la traccia.
    Ma al diavolo! Chi si è permesso tale affronto? Non lo so. Ma lo scoprirò. E mi vendicherò. Con crudeltà, la mia seconda parola d’ordine. La crudeltà che merita.
    Devo solo calmarmi.
    E riflettere.
    Da quella traccia sono certo di poter ricavare molti indizi.
    Anzitutto: chiunque sia lo sfrontato, ha in mano il mio identikit. Come può averlo ottenuto? Uccidendo Laura Queen, ovviamente. E come può essere passato inosservato alla polizia, che io stesso con i miei occhi ho visto radunata nel portone di Collis, e non ho nemmeno avuto la possibilità di avvicinarmi? Prima domanda a cui non so rispondermi.
    Poi: ha detto di aver iniziato ad indagare su di me subito dopo il mio primo omicidio. In che modo? Come può aver indagato su di me, se nemmeno la polizia è riuscita a creare una teoria plausibile su W.K.? Seconda domanda senza risposta.
    Infine: ha definito Hoplins come “mio amico”. Come può conoscere questo dettaglio? Deve necessariamente conoscere di persona o me, o aver conosciuto Hoplins.
    Non capisco nulla. Mi arrabbio. Terribilmente. Scaravento a terra tutto ciò che c’è sulla scrivania tranne il computer. Mi serve spazio per riordinare le idee. Le appunto su un foglio, una sotto l’altra. Un elenco che mi fa uscire di senno, perché non riesco a venirne a capo. Non sto giocando allo stesso livello del misterioso individuo. Sto perdendo.
    E io non so perdere.
    Cerco un collegamento visivo che mi unisca i tre punti chiave sul foglio, gli unici tre indizi su cui posso indagare. E poi ho un’illuminazione.
    Sul volto mi compare un sorriso maligno.
    Scoppio a ridere sonoramente.
    Sempre più forte.
    Io sono la volontà di Dio, nessuno può fermarmi, e chi si mette sulla mia strada, muore. Necessariamente.
    Credo di aver capito il collegamento fra i tre punti.
    Un infiltrato. Chiarisce sia il punto uno che il punto tre, ed implica il due.
    Afferro il cellulare fra gli oggetti a terra. Ho fatto cadere anche quello. Nuovamente evidenzio in rubrica il numero di Jeremy Scott e lo chiamo.
    «Jeremy, sei in centrale?»
    «Si.»
    «Mi serve un favore. Hai un minuto?»
    Sembra che non lo disturbi particolarmente. Mentre parlo sorrido. Le mie iridi si tingono di rosso sangue. Il sangue che presto colerà dal cadavere di chi ha osato sfidarmi.
    «Senti: dovresti dirmi il nome del primo neoassunto in polizia da quando W.K. ha iniziato a uccidere. Non so quando fosse…» mento, ma nel farlo ci metto impegno e sono certo di riuscirci bene. Sembro davvero ignorare tutto.
    Lo sento battere le dita sulla tastiera del suo computer. Sta cercando il nome della mia prossima vittima. Passano alcuni minuti. Lo attendo giocherellando con la mia lama, gelida e assassina. L’unica casa che ho badato a non scaraventare a terra oltre il computer. La giostro fra le dita con sicurezza. È la mia migliore amica. Poi sento l’altro tornare in linea.
    «Direi… Drake Lagoon. Assunto in centrale il 2 ottobre. Il primo omicidio di W.K. risale al 28 settembre. Ti basta?»
    Potesse vedere la mia espressione! Credo di essere la personificazione dalla gioia e della cattiveria fusi in un individuo. Nella mia mente passano una serie di immagini: fantasie omicide. Mi immagino questo Drake Lagoon trafitto a morte dalla lama con cui sto ancora giocherellando.
    «Riesci a mandarmi per e-mail una sua fotografia?» forse sto rischiando un po’ troppo. «E’ per una notizia del mio giornale, sai.» mi giustifico immediatamente. Non voglio creare troppi sospetti. Anche se il mio piano l’ho già delineato. Uccido Drake Lagoon, Jeremy Scott si insospettirà di vedere il collega cadere vittima di W.K. non appena ne ha parlato con me, mi verrà a cercare con indifferenza per pormi qualche domanda e io ucciderò anche lui.
    Semplice.
    Solo sto ricadendo nella pianificazione.
    Improvvisare è la mia parola d’ordine.
    Improvviserò i due omicidi.
    Mi sento potente. Sono potente. Sono il più potente. Sono divino.
    Dopo tre minuti scarsi nella mia casella postale vedo apparire una fotografia. Un primo piano di Drake Lagoon. È un ragazzino. D’aspetto si potrebbe definire il mio esatto opposto. Ha gli occhi scuri, i capelli lisci e castani, i tratti duri e nettamente delineati. Gli occhi, effettivamente, restituiscono un certo senso di sfida. E intelligenza. Sembra un tipo sveglio: e l’ha già ampiamente dimostrato. Sarà bello giocare con lui. Avrò più soddisfazione nell’ucciderlo, rispetto ai miei altri omicidi.
    Non vedo l’ora.

    Arrivo davanti alla porta della cattedrale con qualche minuto di anticipo. All’interno, però, sembra già tutto occupato. Non ho il mio abituale cappotto. Sono vestito a lutto per l’occasione. E la lama è più attaccata alla pelle del solito. Più fredda forse. Ma non credo che avrò modo di usarla, oggi. Per la prima volta mi sento più sicuro a tenere la mano vicino al fodero della pistola. Drake Lagoon non sarà certo così stupido da venirmi tanto da vicino da permettermi di sferrare un colpo diretto. Ho capito che non è la solita preda a cui dare la caccia. Non sarà una cosa semplice.
    Già il fatto che sia riuscito a scoprirmi ha dimostrato doti superiori a qualunque altro umano. Doti simili alle mie, se vogliamo, e io non mi ritengo come gli altri. Io sono superiore, voluto dalla volontà divina per portare sulla Terra la sua legge.
    Mi sistemo in un angolo al fondo della cattedrale. Con gli occhi abbraccio tutta la navata centrale, immensa. La bara sta entrando. Ma non ci do importanza. Non è il mio interesse. Cerco con lo sguardo Drake. Ho in tasca il suo primo piano. Ogni tanto gli lancio un’occhiata con indifferenza e mi guardo attorno, circospetto.
    Penso che lui mi abbia già individuato.

    Per tutta la cerimonia mi sono guardato attorno. Attento. Ma non ho individuato il mio bersaglio.
    Ho deciso di dileguarmi fra la folla mentre il corteo fuoriesce dalla cattedrale. So cosa fare. Cammino veloce. Mentre si celebrava il rito, fuori ha ripreso a nevicare.
    E ora i miei passi affondano in un velo bianco poggiato a terra. Mi dirigo verso casa.
    Il cuore mi batte forte, lo sento dal polso che batte contro la gelida lama. La mano è appoggiata sul fodero della pistola, già aperto per permettermi una maggior velocità di reazione.
    Mi sono accorto di essere seguito da quando ho lasciato la cattedrale.
    Qualcuno è alle mie spalle e mi controlla da una distanza di circa venti metri.
    Allungo il passo, e lui fa altrettanto.
    Mi blocco, fingo di guardare una vetrina. In realtà sfrutto il riflesso per controllarlo. Squadro la sua figura voltata di schiena, lo analizzo. Sorrido.
    Mi sto divertendo a giocare con lui.
    Riprendo a camminare. Sento la sua presenza alle spalle.
    Vedo il mio palazzo in lontananza. La strada è deserta. Siamo soltanto io e il mio pedinatore.
    Io mi fermo di colpo, lui invece no. Lo sento avvicinarsi alle mie spalle. Ho quasi il suo fiato sul collo. Ci separano solo pochi metri. Scoppio a ridere.
    «Allora, Drake… qui va bene?»
    Getto il guanto della sfida.
    E lui lo raccoglie.
    «Se non vuoi andare oltre, W.K.»
    Mi volto.
    Gli sguardi si incrociano.
    Un brivido scorre sotto la pelle, risale la schiena, arriva al collo. Sono certo che lui sta provando i miei stessi sentimenti. Glielo leggo in volto. Non è come tutti gli altri, che a conoscere la mia reale identità, che io sono W.K., sono pervasi dal terrore. Lui è calmo. Gelido, fuori per la neve e dentro per la tranquillità. È come me. Non so se anche lui è il risultato di un piano superiore a quello umano, come io mi sento.
    Lo vedo portare la mano verso il retro dei pantaloni.
    Veloce ne estrae qualcosa. La luce del lampione che lo sovrasta viene riflessa dall’oggetto metallico che ha in mano.
    Mi abbaglia per un istante. Anche meno.
    Ma gli è sufficiente per sparare tre colpi in raffica dritti verso di me.


    CAPITOLO #5 - SCAMBIO DI PERSONA
    Vedo che dal retro dei pantaloni, Drake Lagoon estrae qualcosa.
    È una pistola. Il metallo della canna riflette la luce del lampione che lo sovrasta e mi abbaglia per un istante.
    Ma gli è sufficiente per fare fuoco tre volte.
    D’istinto mi getto a terra. Sento i proiettili sibilarmi accanto.
    Sono praticamente sdraiato sul velo bianco che ricopre la strada, e da questa svantaggiosa posizione estraggo la pistola dal fodero e rispondo al fuoco.
    Mi rialzo di scatto.
    I miei colpi l’hanno nemmeno sfiorato.
    Vedo che avanza tranquillo verso di me, mi punta la pistola addosso. Faccio altrettanto. Ci guardiamo dritto negli occhi.
    Sappiamo che entrambi potremmo ucciderci da un momento all’altro, ma sento che non è il nostro desiderio. O almeno, non è il mio. E mi pare di aver capito che lui ragiona esattamente come me.
    Per strada non c’è nessuno. Sembra un campo di battaglia. È il nostro campo di battaglia.
    Capisco che l’unico modo per avere la meglio e spostare il luogo della disputa dove io possa avere un reale vantaggio. Un luogo che io possa conoscere meglio di lui.
    Nonostante la situazione, ragiono.
    Improvviso.
    Ho un’idea.
    Sono un genio.
    Premo altre due volte il grilletto. So che riuscirà a scansare i miei colpi. E così è.
    Ma io ho una frazione di secondo per iniziare a correre. Mi guardo alle spalle continuamente per evitare di essere colpito. È pericoloso quello che sto facendo. Non mi muovo sulla sua linea di fuoco. Con continui balzi a destra e a sinistra evito i numerosi proiettili che mi si fiondano contro.
    «Fermati, codardo!» mi grida alle spalle.
    Non posso credere che non abbia capito le mie reali intenzioni.
    Raggiungo una panchina, la salto con agilità e mi ci abbasso dietro. La uso come rifugio. Tenendo la testa al coperto, espongo solo la canna al di sopra del poggia schiena. Sento la sua presenza vicina.
    I due colpi che sparo lo colgono di sorpresa. Credo che non avesse notato la pistola far capolino da dietro il mio riparo.
    Si getta a lato, verso destra, trovando rifugio dietro un cassonetto dell’immondizia. E da lì fa esattamente come me. Spara due colpi alla cieca, rimanendo al coperto. Uno dei due proiettili scheggia la panchina tre centimetri più in là di dove la mia mano tiene la pistola pronta a sparare. Un bel rischio. Le schegge di legno mi saltano davanti. Così vicine che le posso distinguere l’una dall’altra. Ma non mi colpiscono, fortunatamente.
    Vedo il portone del mio palazzo, è molto vicino. Non saranno nemmeno cinquanta metri. Sono deciso.
    Sparo tutto il resto del caricatore verso il cassonetto dietro al quale si ripara Drake Lagoon, sono quattro e cinque colpi, e mi rimetto a correre.
    Mentre volo in mezzo alla cascata di neve sento i colpi del mio avversario quasi accarezzarmi. Con sibili sinistri mi oltrepassano e si schiantano i più sugli alberi che circondano la strada, altri giacciono a terra metri più avanti e rotolano sulla strada. Sto attento a non inciamparmi mentre corro. Intanto cerco di cambiare il caricatore della mia arma senza rallentare.
    Fantastico!
    Ci riesco quando non mancano nemmeno dieci metri dal mio palazzo.
    Mi volto e vedo che Drake ha rallentato; sta prendendo la mira con cura. Ha la canna della pistola proprio all’altezza dell’occhio. Mi ha messo al centro del mirino.
    Preme il grilletto.
    Il proiettile è diretto proprio in mezzo alle mie iridi sanguinarie.
    Lancio il caricatore vuoto che ho in mano verso di lui. Il proiettile lo colpisce il pieno sminuzzandolo. Sono salvo.
    Con un’imprecazione, Drake Lagoon si rimette al mio inseguimento.
    Io entro nel mio portone.

    Sono appostato al secondo piano, dietro la svolta che dalla tromba delle scale porta al pianerottolo. Sento i suoi passi sui gradini lenti, attenti, insidiosi. Credo si trovi ancora al primo piano.
    Sento il mio cuore battere all’impazzata, come se da un momento all’altro potesse scoppiare.
    Il suo respiro affannato si fa sempre più vicino. Vedo al piano di sotto la sua ombra contro il muro mentre volta l’angolo puntando la pistola. Non mi trova. Non sa dove sono. Credo stia puntando alla mia porta di casa.
    Impugno la pistola con la mano destra, e nella manica dello stesso braccio posso sentire la mia lama assassina pronta a sferrare un attacco mortale.
    Intanto lui ha ripreso a salire su per le scale. Mi allontano leggermente dall’angolo del muro, mettendomi un po’ più al coperto: rimanessi lì, forse potrebbe notare la mia ombra a terra.
    Mi acquatto, quasi scompaio nell’angolo buio infondo al pianerottolo.
    Ormai gli mancheranno solo pochi scalini.
    Sento un rumore metallico. Non capisco cosa diavolo stia facendo. Poi qualcosa colpisce violentemente il muro di fronte a quello dove sono appostato. Che diavolo è?
    Una bomba?
    No, sto impazzendo. Non può essere così stupido. Ma non capisco di cosa si tratta.
    Probabilmente è solo un caricatore. Sperava abboccassi alla sua trappola saltando fuori dal mio nascondiglio.
    Una goccia di sudore mi riga la fronte e scende lungo il collo, percorre la schiena e si asciuga sull’orlo dei pantaloni. È gelida.
    Attimi di tensione.
    Stringo la pistola con la mano umida, sento la lama gelida nel polso accarezzarmi la pelle.
    È arrivato all’ultimo gradino. Se ha gettato quel caricatore contro il muro deve avere intuito che mi nascondo lì.
    E infatti lo vedo sporgersi un pelo oltre il muro, il suo sguardo incontra il mio per un istante.
    Entrambi facciamo fuoco. I proiettili devono essersi colpiti a vicenda, perché uno s’è conficcato nel soffitto e l’altro rotola a terra con uno stridulo cigolio.
    Ma ora lui è appostato dietro il muro, io invece non ho ripari.
    E quindi, non ho scelta.
    Con un unico movimento rimetto la pistola nel fodero ed estraggo la lama dalla manica, quindi mi scaglio contro di lui.
    Non se lo aspettava, lo sorprendo.
    Spara due colpi che evito con agilità e sferro un pugno con la sinistra, per poi eliminarlo con un colpo unico della lama che tengo con la destra sudata.
    Ma d’istinto si abbassa leggermente, e con il pugno riesco soltanto a colpirgli la spalla. Mi volto in un attimo, è passato alle mie spalle saltando sul pianerottolo. Gli punto la lama dritta verso il volto e cerco di colpirlo.
    È agilissimo.
    Il mio colpo va completamente a vuoto, la lama si conficca a fondo nel muro. Pareti di cartongesso… vivo proprio in un palazzo che crolla…
    In ogni caso, la lama è andata troppo a fondo per tirarla fuori senza un minimo sforzo, ogni attimo che perdo potrebbe essermi fatale. Decido che è meglio lasciarla lì come baluardo del mio passaggio, per il momento.
    Mi getto sul mio avversario a mani nude.
    Lui impugna sempre la pistola, ma siamo troppo vicini perché possa a sparare.
    Riesco a cingergli il collo con l’avambraccio, credo di averlo immobilizzato ma con una rotazione su se stesso inarca la schiena in avanti a mi butta a terra facendomi fare un volo di almeno due metri.
    Sono indolenzito sul pavimento duro come il marmo, freddo come il ghiaccio.
    A colpo sicuro mi spara due colpi contro.
    Evito il primo.
    Il secondo mi colpisce di striscio. Perdo sangue dalla spalla destra.
    È un dolore atroce.
    Mi rialzo a fatica, estraggo nuovamente la pistola. La impugno con la sinistra, questa volta, perché l’altra spalla mi fa troppo male per controllare il braccio.
    Non ho una buona dimestichezza con il mancino. Sparo praticamente a caso, il rinculo dell’arma mi porta solo a buttare parecchi colpi. Lui invece è diventato un sicario. Mi colpisce nuovamente, ma non vuole uccidermi.
    Lo capisco.
    Potrebbe farlo in qualsiasi momento, ma non mi colpisce punti vitali.
    Barcollo ferito alla spalla, un proiettile conficcato in una gamba e uno al costato.
    Cado a terra esanime. Sbatto anche la testa.
    Chiudo gli occhi, e tutto è buio.
    Sento la canna della pistola di Drake Lagoon poggiata sulla mia tempia.
    È ghiaccio vivo. La testa mi esplode, sento talmente male ovunque che non distinguo nemmeno più le parti del corpo ferite.
    Non riesco neppure ad aprire gli occhi.
    È tutto finito.
    W.K. che muore nel proprio palazzo. Che triste fine.
    «Steven… Steven… Steven…» mi sussurra all’orecchio.
    L’ultima cosa che ricordo è la sensazione di gelo della canna sulla tempia.

    Poi sento uno sparo.

    E poi tutto nero.
    Nero.
    Nero.
    Nero.

    Apro gli occhi.
    Non distinguo le sagome che vedo passarmi davanti. Non capisco niente. Non so dove sono.
    Poi connetto: sono sdraiato in un lettino dell’ospedale.
    Ma che diavolo…?!
    Ho la spalla ingessata, così come tutto il busto e la gamba sinistra. Mi si fa incontro una dottoressa.
    «Si è svegliato!» mi dice con un sorriso stampato in volto.
    Mi faccio spiegare rapidamente l’accaduto: niente di che, sono ferito in più punti. Alla spalla passerà presto, mentre le ferite riportate in vita e alla gamba sono più profonde e ci vorrà più pazienza.
    Ma non capisco.
    Io ero morto nel mio palazzo, al secondo piano. Drake Lagoon mi aveva sparato un colpo alla tempia.
    La dottoressa esce e la vedo confabulare con un uomo in divisa. Lo conosco: è Jeremy Scott.
    Entra all’interno della mia stanza.
    «Steven! Come andiamo?» mi domanda in una risata.
    «Sono stato meglio… ma… cos’è successo?»
    «W.K. ha tentato di ucciderti, nulla di particolare…» continua a ridere.
    W.K.?! Ma W.K. sono io!
    Ancora non riesco a capire.
    Lo guardo con gli occhi persi nel vuoto.
    «Drake Lagoon. Ricordi? Ti ha aggredito nel tuo portone. Una signora nel palazzo ha sentito gli spari e ci ha immediatamente chiamato. Quando siamo arrivati eri disteso a terra, ferito, e accanto a te c’era Lagoon che ti puntava la canna alla tempia. Ricordi?»
    «Si, qualcosa…» sono annebbiato ma so di cosa sta parlando. Rivedo nella mia testa quella scena.
    «Gli ho sparato.» mi dice «Un colpo dritto al cuore. Ha lasciato cadere la pistola e ha farfugliato le sue ultime parole, che senza alcun dubbio sono state “Io sono W.K.”.»
    Ora ricordo!
    La canna fredda sulla mia tempia, lo sparo. Mi credevo morto. Invece era stato Jeremy Scott. Aveva sparato a Drake Lagoon prima che mi potesse uccidere, e questo, ferito mortalmente, aveva detto di essere W.K.
    Ho un’illuminazione.
    Nella registrazione metallica, l’allora misterioso individuo diceva che il suo unico interesse era far finire il mito di W.K., il mio mito, in modo che tutto finisse presto nel dimenticatoio.
    In questo modo, dicendo in punto di morte di essere W.K., tutti considereranno il caso concluso e la mia fama svanirà velocemente.
    E per di più, conciato come sono, non posso nemmeno riprendere ad uccidere per far capire che nuovamente non sono riusciti a catturare né ad uccidere W.K., quello vero.
    Maledizione!
    Drake Lagoon è riuscito nel suo intento.
    Ma perché? Perché?
    «Senti un po’, Steven...»
    «Dimmi.»
    «Ricordi che tempo fa mi avevi cercato in centrale e ti eri informato riguardo a questo Drake Lagoon?»
    Si, mi ricordo di cosa stava parlando. Quando gli avevo chiesto la fotografia per recarmi in cattedrale, in occasione del funerale di Hoplis. L’inizio di questa vicenda, in poche parole.
    «Mi dissi che ti serviva per un tuo articolo. In realtà avevi già capito tutto?»
    E ora? Se nego, si insospettirà. Se gli dico che ha ragione, il caso W.K. si concluderà così, e la mia fama svanirà velocemente.
    «Non ricordo… scusa…» preferisco non rispondere, mi inventerò qualcosa più in là.
    Per ora Jeremy Scott mi saluta cordialmente e dice di lasciarmi riposare.
    Altro che riposare, mi serve riflettere.
    Cosa diavolo posso fare? Bloccato su un lettino, ferito in tre punti. W.K. è ritenuto morto, e io non posso uccidere nessuno per far capire che le cose non stanno così. E oltretutto chissà dov’è la mia lama. L’avrà recuperata la polizia. Ricordo che l’avevo conficcata nel muro e là era rimasta. Si, senza dubbio ora è in mano alla polizia.
    Maledizione!
    Può essere il prescelto in una situazione tanto scomoda?
    Posso io, superiore a tutti gli altri esseri umani, poveri giocattoli di chi detiene il potere, essere impossibilitato a fare qualsiasi cosa?!
    Posso io, W.K. in persona, non fare paura nemmeno ad un insetto?!
    Sto impazzendo.
    Lo sento.
    Non sono capace a controllarmi in queste situazioni. Ho bisogno di tornare a fare ciò in cui sono più bravo, ciò per cui Dio in persona mi ha eletto: uccidere.
    Voglio andare da uno psicologo, l’avevo già pensato tempo fa che ci sarei dovuto andare. Anche solo per divertirmi. Ora ci voglio andare. E perché lo sento necessario.
    Sarà la prima cosa che farò quando uscirò da questa dannata prigionia.
    W.K. non è morto.
    W.K. non muore.
    E presto tutti lo capiranno.
    Ho in mente la cosa migliore da fare.
    Tento di trattenere le risate. Sussulto, sento che non mi conterrò ancora a lungo. Infatti poco dopo scoppio a ridere in modo scomposto, quasi pazzo. La mia risata è caratterizzata da un suono crudele. Io sono crudele.
    E forse sto diventando anche pazzo.
    Ma cosa me ne importa, infondo. La follia non è prevedibile, W.K. non dev’essere prevedibile. W.K. sarà follia.
    E presto tutti, tutti ricominceranno a tremare per questa follia dilagante chiamata W.K.


    CAPITOLO #6 - IL TRAMONTO DI W.K.
    Ho finalmente lasciato la mia prigione, l’ospedale.
    La ferita alla gamba ha cominciato a rimarginarsi, ne avrò per ancora un mese circa. Quella alla vita invece va peggio: i dottori mi hanno detto che prima di due mesi non tornerà come nuova. Al contrario, e fortunatamente, quella alla spalla non è che un triste ricordo.
    Ora, disteso sul mio comodo divano, rifletto.
    Voglio andare da uno psicologo, assolutamente: ho già la mia idea. Non potrò uccidere per parecchio tempo a causa della mia misera condizione, e anche quando tornerò in salute la mia lama assassina giacerà in mano alla polizia.
    Nonostante ciò, ho avuto l’idea su come far tornare alla ribalta la fama di W.K. L’idea mi è venuta in ospedale quando una donna sistemata nel lettino accanto al mio ha simulato una crisi epilettica per attirare l’attenzione su di se, dopo che per ore aveva chiamato un’inserviente perché aveva bisogno di qualcosa che non ricordo.
    E il mio piano sarà simile.

    Cammino con una stampella. Sono rimasto in ospedale quindici giorni, il Natale è passato e non ricordavo quanto una strada innevata potesse essere scivolosa.
    Con cautela arrivo di fronte all’ingresso di un palazzo, elegante e sfarzoso. Al numero civico 2 risiede William Stuart, lo psicologo che ho contattato alcuni giorni prima. Ho fissato un appuntamento per oggi. E stranamente sono anche puntuale.
    Citofono, mi aprono e salgo in ascensore al secondo piano.
    Non c’è coda e posso subito entrare nello studio.
    Stuart mi riceve e mi fa sdraiare sul classico lettino che viene mostrato in ogni film quando qualcuno si reca dallo strizzacervelli.
    Ma Stuart non sa quello che ho intenzione di fare. Per una volta, il paziente metterà il dottore in difficoltà. Seria difficoltà.
    «Allora, come stiamo?» mi domanda una volta che sono sdraiato. «Qual è il suo problema?»
    Mi schiarisco la voce e senza esitazioni rispondo «Da quando un infiltrato in polizia mi ha causato queste ferite, non ho più potuto uccidere nessuno.»
    Ma lui non ha la reazione che mi aspettavo.
    «E lei che professione svolgeva quando poteva uccidere liberamente?»
    «Il serial killer… io sono W.K.» rispondo.
    Lo squadro con aria di sfida. Voglio leggergli il timore negli occhi.
    Macché! Negli occhi gli vedo solo il dito della mano destra con il quale si sposta un ciglio che lo infastidiva.
    «Quindi lei si ritiene W.K., giusto? Il famoso serial killer…»
    «No, non ha capito… io non mi ritengo proprio nessuno…»
    Mi guarda interrogativo e io proseguo.
    «Io sono W.K., le ho detto.»
    Appunta tutto ciò che dico su un taccuino. Ma che diavolo?! Dovrebbe tremare, preoccuparsi, ha davanti a se il più temuto serial killer d’Inghilterra dai tempi di Jack lo Squartatore!
    E invece no: è impassibile. Scrive e mi osserva. E io non so più essere calmo, cauto.
    Io improvviso.
    Ho perso la cattiva abitudine di seguire la logica, la logica è prevedibile.
    Io sono la volontà divina, nessuno può ostacolarmi. Io semino il terrore. E invece con Stuart no: semino solo inchiostro nero su pagine bianche, parole buttate al vento che mai nessuno rileggerà.
    «Come posso convincerla di essere realmente W.K.?» domando quasi ringhiando.
    «Mi racconti nei dettagli qualche omicidio. Il primo, magari. Il primo caso, la prima volta è, in qualsiasi argomento, la cosa che meglio si ricorda.»
    Mi sta sfidando. Bene, giocherò al suo gioco.
    «Era il 28 di settembre. La mia vittima era Joseph Diaz, missionario appena tornato dall’Africa. Ho deciso di assassinarlo quando ho scoperto che in Africa c’era andato solo per interessi economici: era stato raccomandato dall’arcivescovo. Il suo unico compito in Africa era quello di occupare un posto, posto che sarebbe potuto essere preso da qualcuno di reale aiuto, e che invece lui aveva deciso di occupare dietro lauta ricompensa. Le basta o vuole altri dettagli?»
    «No, no… continui pure.»
    Maledetto! Vuole davvero provocarmi.
    «Come desidera. L’ho ucciso alle diciotto circa nella sacrestia della chiesa in cui celebrava le funzioni. Kingdom Street 69. Una pugnalata alla gola. E poi solo tanto sangue.»
    «E invece cosa mi dice di Drake Lagoon? Ho letto cose interessante sul giornale.»
    Mi schiarisco la voce.
    Vorrei alzarmi in piedi e fare capire con la forza allo psicologo che sta giocando col fuoco. Che io non scherzo.
    Che io sono W.K, realmente.
    In ogni caso, cerco di mantenere la calma e con un sorriso beffardo inizio il racconto su Drake Lagoon. L’infame che mi sta facendo perdere la notorietà datami dal mio lavoro, il mio secondo lavoro: il serial killer.
    «Drake Lagoon era un infiltrato alla polizia, fattosi assumere il 2 di ottobre per indagare sul mio conto, con l’unico obbiettivo di far dimenticare la fama di W.K., e come vedo ci sta riuscendo. Me l’ha comunicata lui stesso questa sua volontà. Mi ha inviato un DVD anonimo, annunciando di aver scoperto la mia reale identità e la sua intenzione di eliminarmi. Mi ha detto che ci saremmo incontrati al funerale di Hoplins, mio amico e agente che io stesso ho ucciso, e così è stato. Non le racconterò come sono andati tutti i fatti da qui al momento in cui Jeremy Scott nel mio portone gli ha sparato un colpo dritto al cuore, uccidendolo, ma le dirò solo una cosa: Lagoon ha detto di essere W.K. solo per realizzare il suo obbiettivo. In questo modo, la polizia ha ritenuto W.K. morto e la mia fama sta andando verso il dimenticatoio.»
    Ho parlato tutto d’un fiato, infervorato dalla narrazione.
    E Stuart mi guarda con aria di sufficienza e commenta: «Il suo unico problema, signore, è la sua ossessione, quasi venerazione nei confronti di W.K. Non sa quanti casi, ultimamente, da quando W.K. è morto, di individui che sono venuti a raccontarmi questa storia, che hanno tentato di convincermi di essere realmente il famoso serial killer: quanti pazzi hanno studiato la vicenda nei minimi dettagli solo perché la loro improvvisazione fosse migliore di quella degli altri, più convincente, direi...»
    Improvvisazione.
    Quella parola mi ha come risvegliato.
    Basta, non ha senso perdere altro tempo. Tempo prezioso. Io voglio che tutti sappiano che io sono W.K. E Stuart non mi sarà d’aiuto.
    Mi alzo, indosso il cappotto, recupero la stampella che avevo poggiato a terra accanto al lettino. Esco dallo studio maldestramente. Poi, quando sono già quasi fuori, torno indietro di un passo.
    «Glielo assicuro: io sono W.K.» dico con tono sicuro e aria distinta.
    Quindi mi allontano.

    So qual è la mia prossima meta. Ma cammino lentamente. Ripenso all’incontro con Stuart, che è stato quanto mai vano.
    Mi ha scambiato per un pazzo. Un pazzo con manie di protagonismo. Ma io sono W.K., dannazione! Cosa devo fare per farlo capire, farlo capire a tutti?!
    Mi metto a ridere crudelmente. Ho notato una cosa ridicola, in tutta la vicenda: quando compivo i miei omicidi, facevo di tutto perché nessuno potesse ricondurre W.K. a me. Ora che ho smesso di uccidere, sebbene costretto a tale scelta dal mio fisico, faccio di tutto perché mi riconoscano come il reale W.K.
    Riconoscimento che tra l’altro mi spetta di diritto, ovviamente.
    Oddio, sto degenerando. Sento di non riuscire più a controllare i nervi.
    Scoppio nuovamente a ridere, freneticamente ed in modo isterico, senza motivo. Alcuni passanti mi chiedono se va tutto bene.
    «Certo, ma ho bisogno di uccidere! Io sono W.K.!» grido. Grido con tutto il fiato, tutti mi guardano male. Mi credono un folle, un ubriacone. Alcuni si scambiano commenti divertiti sul mio atteggiamento.
    Ma c’è poco da ridere.
    Anche se io continuo a farlo. Isterico, nervoso, poi crudele, beffardo, quindi convulso. Rido senza controllo, senza freni inibitori.
    Sto degenerando. Me ne accorgo. Sento la pazzia pervadermi l’animo, e non riesco a controllarla. Divampa liberamente.
    A stento riesco a trattenermi quando vedo la mia destinazione finale all’orizzonte, sempre più vicina: la centrale di polizia.
    La raggiungo di corsa, sento il gelo sul volto. Ma mi fa bene, devo tornare in me. Devo essere calmo, freddo. Devo ritrovare il temperamento di W.K.: chi mi darebbe ascolto, in caso contrario, mentre mi costituisco? Perché è questo che voglio fare. Non mi interessa più, non ci ragiono nemmeno su cosa accadrà in seguito: sono disposto anche a passare il resto della vita in galera, in isolamento, da solo. Ma io ho fatto tutto ciò che ho fatto principalmente per la fama, per il piacere di vedere volti terrorizzati solo al vedermi. Ora esigo che mi siano riconosciute le mie azioni: io sono W.K. E voglio che tutti lo sappiano.

    «Mi devo costituire.» dico tranquillamente al primo uomo in divisa che incontro
    Mi guarda stranito: l’ho detto con una tranquillità, una naturalezza che l’hanno lasciato perplesso.
    Scoppio a ridere nuovamente guardando quell’espressione attonita. L’uomo mi afferra per un braccio con forza e mi strascina in uno stanzino. Ho una luce puntata in volto. Mi abbandona lì ed esce, come non volesse saperne nulla di me.
    Sono nervoso, tutto mi infastidisce: per quasi ogni persona che incontro penso che avrei fatto meglio ad ucciderla quando ero W.K. Quando facevo il serial killer, preferisco dire, perché W.K. lo sono ancora. E tutti lo devono sapere, e avere paura di me, piuttosto odiarmi, volermi vedere morto: ma non posso sopportare di provocare solo indifferenza.
    Non posso sopportare di vedermi ridere in faccia quando a qualcuno dico «Io sono W.K. e presto tornerò da te per ucciderti.» Voglio vedere terrore, lacrime, scongiuri. Non divertimento e sberleffi nei miei confronti.
    Non l’ho ancora detto, ma forse i più lo hanno già notato: sono narcisista. Narcisista da morire. Ed è per questo che sto facendo ciò che sto facendo. Quando uccidevo ero soddisfatto di me, perché nel non farmi scoprire gioivo della mia perfezione. Ora che non posso più uccidere, gioirò nuovamente di me quando tutti mi riconosceranno i miei atti, e soprattutto, la mia fama.
    Intanto qualcuno è entrato nello stanzino. La luce puntata dritta negli occhi non mi permette di riconoscerlo.
    «Steven?!» sobbalza quello.
    Immediatamente fa spegnere la luce da un collega. In qualche secondo riprendo a vedere nitidamente. Ed è sempre lui: Jeremy Scott.
    «Che diavolo ci fai qui?» mi chiede perplesso. Sono tutti perplessi a vedermi lì in centrale, maledizione!, eppure io sono il criminale più ricercato di Londra. «Mi hanno detto che un pazzo voleva costituirsi… e mi ritrovo con te?»
    Sorrido sornione.
    «Io sono W.K.» lo dico senza fronzoli, con soddisfazione. «E voglio essere arrestato per i miei crimini.»
    Non risponde subito, Scott. Anzi, non risponde proprio. È il collega a prendere la parola «Cosa stai dicendo, ragazzo?» mi domanda, con la solita espressione comune a tutti.
    Scott però lo invita cortesemente a lasciare la stanza, vuole rimanere solo con me. Il collega, come richiesto, esce.
    «Steven, cosa diavolo stai facendo?! Cosa diavolo stai dicendo?!» mi fissa dritto negli occhi, sembra alterato. Mi osserva con attenzione. Finalmente credo di aver trovato qualcuno che mi crede. Finalmente l’indubbia fama di W.K. verrà collegata a me, e io sarò famoso. E invece no, tutti i miei castelli di carta crollano improvvisamente, di colpo, quando Scott mi dice «Torna a casa e fatti una sana dormita.»
    «Ma io sono W.K., Scott! Mi devi credere! Io ho ucciso Hoplins, il mio amico… il tuo amico! Io ho ucciso tutti quei sacerdoti, tutti gli innocenti che si sono trovati sul mio cammino! Maledizione Scott, mi devi credere!»
    Gli leggo in volto lo sconforto. Mi cinge le spalle con un braccio e mi accompagna fuori dallo stanzino.
    «Io sono W.K.!» grido in modo che tutti in centrale possano sentirmi.
    Ma nessuno mi da importanza.
    È terribile quel senso di impotenza che si prova in circostanze simili. Quando tu sei l’unico a sapere la verità, una verità incredibile, e vieni ritenuto pazzo solo perché cerchi di farla conoscere a tutti.
    «W.K. è morto.» mi intima Scott «Era Lagoon. Ed è morto. L’ho ucciso personalmente.»
    È vero. Ma in questo momento, principalmente, Scott ha ucciso me. Il mio spirito combattivo. Quello spirito caratteristico di W.K. Che non si arrende solo perché un’impresa sembra troppo ardua.
    Ma basta. Ci rinuncio.
    Io, la volontà di Dio in persona, l’essere per eccellenza in mezzo a tanti comuni mortali, rinuncia a portare a compimento la propria missione. Ho fallito. Lagoon ha vinto.
    Maledetto lui e la sua anima!

    Cammino verso casa sconsolato.
    Passo fra la folla e nessuno mi presta attenzione. Sono uno fra tanti, uno comune fra tanti.
    W.K. è morto. Forse devo convincermi che questa è la verità. Ma non perché sia morto W.K., io so benissimo che Lagoon non era il serial killer, ma perché in me s’è spenta la voglia di combattere. Lottare per riaffermarmi. Lottare per riaffermare W.K.

    Entro in casa e mi lascio cadere a peso morto sul divano.
    Sul divano dal quale tempo fa partivano le pianificazioni per tutti gli omicidi, per studiare il metodo migliore per non lasciare indizi, come agire più furtivamente. Ora invece è un foglio bianco che non assume alcun colore.
    Ho solo un’idea. Simbolica. Credo che a questo punto sia meglio così.
    Prendo dalla scrivania un quaderno.
    Il mio narcisismo mi ha portato anche a questo: nessuno lo sa, ma dal 29 di settembre, giorno dopo al mio primo omicidio, giorno dopo giorno ho collezionato tutti gli articoli del mio giornale relativi a W.K. Alcuni scritti addirittura da me, e non a caso sono quelli che ritengo i meglio riusciti. Pensavo che un giorno, abbandonato definitivamente il mio lavoro di serial killer, mi sarei divertito a rileggerli. A ripensare e rivivere con un sorriso quei momenti. A rivedere nella mente gli sguardi terrorizzati delle vittime.
    Non pensavo che quel quaderno, pieno di ricordi, ricordi che tracciano la storia del mio mito, sarebbe finito così: nelle fiamme del caminetto.
    Vedo bruciare il mio passato. È la fine della mia fama. Del mio divertimento.
    È la fine di W.K.

    Dall’indomani avrei ripreso a lavorare regolarmente presso lo studio in cui, da neoassunto che vuol subito brillare, avevo speso troppo poco tempo. Ma ora, voglia di brillare proprio non riesco ad averne. Non voglio più essere nessuno. Sono troppo abbattuto. Ho visto la mia aspirazione, essere ricordato per sempre, bruciare nelle fiamme del mio caminetto. Il fuoco ha divorato le pagine della mia storia.
    E con quelle ha divorato anche me.





    (Tre settimane dopo.)
    Sono svegliato dal rumore molesto che proviene dalla porta di casa. Qualcuno sta bussando violentemente da alcuni minuti. Mi alzo, squadro l’orologio digitale: le tre di notte. A tastoni raggiungo l’ingresso.
    Ma non faccio in tempo a raggiungere la porta che, dopo un colpo più violento degli altri, vedo questa cadermi addosso.
    Fasci di luce invadono la stanza buia, uno in particolare mi abbaglia. Non riesco a vedere nulla. Sento di essere preso per le braccia con veemenza. Trascinato fuori da casa di peso. Sono sbattuto malamente su una sorta di panca, non capisco bene cosa sia e dove mi trovi.
    Non capisco nulla, a dire il vero.
    Sono troppo stordito, abbagliato dalla luce, confuso dallo sbattimento. Sento delle persone confabulare qualcosa, alcune alzano la voce.
    Ora che sono seduto inizio a mettere a fuoco, dopo lo stordimento iniziale.
    Riconosco alcuni individui che stanno discutendo. E capisco di essere stato portato nel retro di un furgone.
    Guardo fuori prima che chiudano il portellone. E poi sento solo il motore mettersi in moto, uno scossone violento mi fa sbattere la testa sulla lamiera alle mie spalle. Capisco subito dove mi stanno portando, il perché posso solo ipotizzarlo.



    LA SECONDA E LA TERZA PARTE DEL THRILLER SONO DISPONIBILI ALLE PAGINE 6 E 9 DEL TOPIC

    Edited by the jok3r - 24/3/2012, 19:29
     
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  2. mr s3†z@
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    molto stile Death Note... Mi piaceeeeeeeeeeeeeeeeeeeee
     
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  3. the jok3r
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    guarda sono molto contento che ti piaccia...
    ho iniziato tantissime cose influenzato da Death Note, perchè io da sempre scrivo gialli e mi era difficile non imitare qualcosa... ma in qst ho cercato di limitarmi alla caraterizzazione del personaggio...
    ho voluto evitare qualsiasi elemento di fantasia, perchè irrimediabilmente finivo in qualcosa che uccideva...
    xò boh... ora continuerò... posterò presto un secondo capitolo...

    grazie ancora!! :)
     
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  4. the jok3r
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    in una sera incredibilmente priva di cose da fare, ho avuto modo di scrivere già il secondo capitolo... se qualcuno è interessato al proseguio lo posto :)
     
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    Si, anch'io ho pensato immediatamente "Questo tizio è un fissato di Death Note" xD
     
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  6. Ðalkø™
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    Bello, la lama mi ricorda quella di Assasin Creed :sisi: .
    Cmq mi piace come stile mi ha rapito :caffe:
     
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  7. the jok3r
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    esatto... assassin's creed è da dove mi sono ispirato x la lama :)

    cmq grazie a tutti =) in giornata ci sarà il secondo capitolo =)
     
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  8. Immortal Angel95
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    bellissimo complimenti *_*
    aspetto il sec. capitolo
     
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  9. the jok3r
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    eccolo =) e il terzo è già pronto... solo da rivedere =)

    CAPITOLO #2 - DIO NON HA OSTACOLI

    E quindi la lista delle mie vittime ora contava sei individui.
    Quattro voluti, cacciati e puniti. Altri due, invece, necessità del momento.
    E la polizia ancora brancola nel buio, cercando anche solo un lumicino che possa chiarirgli un poco la strada. Però credo di non aver calcolato un piccolissimo, forse insignificante, dettaglio. Ho ripulito la zona di Londra dove vivo e la chiesa immediatamente più vicina.
    E ora?
    Dovrei continuare la mia opera? Se mi interrompessi, la polizia potrebbe circoscrivere questa zona come area di maggior concentrazione della ricerca? Potrebbero collegarmi alla morte di tutti gli uomini di chiesa? Forse qualcuno che conosce il mio pensiero riguardo al sacro e al profano, fra le persone che mi circondano, c’è: e se in qualche modo la polizia arrivasse proprio a quelle persone?
    Sento che sto perdendo la mia freddezza. La mia calma. Ma non devo. Il mio compito non è finito. Il mio compito non finirà fino a quando anche soltanto un individuo professerà la parola del Signore per interessi personali.
    Non ho che iniziato la mia missione, forse.
    Devo svagarmi.
    Scollegare un attimo.
    E per farlo, accendo la televisione. Sento il primo servizio. E dapprima trattengo le risate, ma poi non riesco. È più forte di me. “La polizia di Londra rassicura i cittadini” dice “W.K. è stato arrestato.” No, impossibile! Hanno arrestato qualcun altro, e su di lui hanno riversato le colpe di tutti i miei omicidi? Rido così forte da non sentire come prosegue il notiziario. Poi mi calmo. Voglio ascoltare attentamente. “Fredrich Pitt è stato fermato dalla polizia della città mentre nella propria armeria arrotava una lama di sciabola che, secondo gli inquirenti, potrebbe trattarsi dell’arma del delitto. Nonostante l’uomo abbia negato da subito, gli inquirenti sono certi trattarsi di W.K. L’ipotesi è stata anche confermata dalla testimonianza di un collega di Abram Defoille” la mia seconda vittima “che ha confermato che Pitt avesse discusso con Defoille il giorno prima della morte dello stesso.”
    Mi basta questo. Spengo la televisione e riprendendo a ridere maleficamente mi abbandono al divano che comodo mi accoglie. Fisso il soffitto: bianco, puro. Nessuno può contaminare qualcosa che è così in alto, penso, come il soffitto. Allo stesso modo, la mia missione è che nessuno contamini la parola di Dio per approfittarsene, perché quella Parola è troppo alta per i civili mortali. E io non sono un civile mortale, il sono il prescelto per questo compito.
    O sono solo schizofrenico?
    Non capisco perché mi capiti di avere questi pensieri. Subito lo rimuovo dalla mia testa. Sono il prescelto, altro che schizofrenico. Ma potrei farmi visitare da uno psicologo. Sarebbe divertente. Sì, lo farò. Non ho mai creduto negli psicologi. Ma in questa circostanza, se davvero hanno le abilità di cui si vantano, solo un buono psicologo potrebbe far affiorare la mia vera identità. Correrò il rischio per divertirmi ancora di più.
    E se davvero riuscisse a scoprire che io sono W.K.? Poco male. Morirebbe.
    Ora sono soddisfatto, così devo ragionare. Nessuno può fermarmi, ormai.
    Anzi.
    Forse sono davvero troppo superiore a chiunque altro, e continuando così mai nessuno riuscirà a scoprirmi. E mi annoierei. Mi annoierei dannatamente. E ora che ci penso meglio: se tale Pitt è stato arrestato, nessuno darà più la caccia a W.K. E io con chi mi divertirò?
    Devo fare in modo che W.K. torni ad essere ricercato. Che il suo nome ricomincia a fare paura.
    Colpirò di nuovo, il più presto possibile.
    Accendo il computer, velocemente muovo le dita sulla tastiera. Scrivo “Scandalo chiesa Londra recente”. Quattro parole chiave nella mia vita. Le quattro parole che mi permettono di identificare le mie vittime. Ecco. Ho trovato un nome: Arthur Collis.
    Accusato di pedofilia. Bene, con lui sono certo di migliorare il mondo.
    Mi informerò meglio.
    Sono o non sono un giornalista?
    Afferrò il cellulare che da qualche tempo ho abbandonato sulla scrivania accanto al computer. Il mio datore di lavoro mi ha chiamato sei volte, e non gli ho risposto. Lo richiamo, pronto al peggio.
    Risponde e nemmeno il tempo di farmi fiatare mi assale con una sfilza di domande che, una volta terminata l’ultima, dal numero ho dimenticato la prima.
    «Scusi, sto lavorando ad uno scoop.» mi giustifico soltanto «Entro una settimana, avrà la notizia da prima pagina.» e riattacco. Almeno ora saprà di non dovermi disturbare.

    Esco di casa.
    Non ho una macchina, non l’ho mai desiderata. Cammino, mi fa bene alla salute. Per quello che faccio mi serve essere scattante e pronto. E, oltretutto, la strada è un’ottima fonte ispiratrice. Con un po’ d’attenzione si possono notare mille situazioni da cui trarre spunto.
    Oggi nevica.
    Bianca e pura è Londra. Solo sulla strada il passare continuo dei mezzi rende la neve opaca, sporca. Bene, quello che sto pianificando di fare ripulirà leggermente quel velo di impurità che ricopre la città.
    Ma non devo dimenticare il mio obbiettivo primario.
    Fare scarcerare Pitt, in modo che la polizia capisca di aver sbagliato tutto. La polizia deve sapere di non potere competere con me. E non perché io lo dica. Semplicemente perché è ovvio. E anziché occuparsi di me, potrebbero incarcerare mille criminali minori, ladri di strada, assassini per amore. Io sono la volontà di Dio, non ho bisogno di essere ricercato: io ricerco, al massimo.

    Sono già a destinazione. Sto cercando Arthur Collis. Ho visto il suo volto solo in fotografia, la stessa fotografia che ho in tasca per riconoscerlo. So anche, dalle informazioni ricavate dall’articolo, che a causa delle accuse mosso contro di lui non svolge più compiti ecclesiastici quali confessare e celebrare messe. Partecipa solo alla vita di chiesa pregando e aiutando i fedeli che non hanno creduto alla sua colpevolezza.
    Ancora per poco.
    Lo vedo seduto al tavolo di un bar giusto di fronte alla chiesa in cui presta servizio. Ovviamente entro nello stesso bar e mi siedo con aria indifferente al tavolo accanto, proprio rivolto verso di lui. Non ho intenzione di nascondermi, per ora. Non ne ho motivo. Lo osservo attentamente. Non ha l’aria maligna ritratta sul giornale. Ma poco m’importa. Non sarà quest’impressione a salvarlo.
    Si è fatto portare una cedrata. Non so perché lo stia analizzando così a fondo. Forse perché ritengo la pedofilia l’atto più vile di questo mondo, e quindi in questo caso voglio conoscere ogni minima sfaccettatura del soggetto entrato nel mio mirino.
    Mi guardo un po’ attorno. Sono sorpreso da chi vedo avvicinarsi al mio tavolo. È Daniel Hoplins, il mio amico poliziotto. Lo invito ad accomodarsi con me. Mi diverto a giocare con il fuoco.
    «Cosa ci fai di bello da queste parti?» mi chiede sedendosi. Da le spalle alla mia prossima vittima.
    «Passavo per di qua. Tu, invece?»
    Mi fa segno con la mano di avvicinarmi.
    «Sono in borghese.» sussurra poi.
    Interessante, molto interessante. Sento di doverne sapere di più.
    Chiedo quale sia la causa di questa missione segreta.
    Senza fare gesti evidenti mi fa capire che sta pedinando la stessa persona che pedino io: Arthur Collis.
    «Visti i bersagli colpiti sino ad oggi da W.K., Collis potrebbe essere uno dei più a rischio nell’immediato futuro.»
    «Avete formulato un’ipotesi?» domando senza nascondere la curiosità.
    «Si. Riteniamo che gli obbiettivi di W.K. siano uomini di chiesa…»
    «Ovviamente.» mi sento in dovere di precisare.
    «… che abbiano qualcosa di losco nel loro passato o presente.»
    Allora la polizia si è svegliata, finalmente. Qualcosa l’ha capito. Forse devo cominciare a giocare più seriamente.
    «E quel Pitt? Ho sentito stamattina il notiziario…» dico io, perché me ne parli.
    Sorprendendomi, accenna una risata beffarda.
    «Quel poveraccio.» commenta poi.
    Non riesco a seguirlo. Glielo faccio capire e a bassa voce mi spiega tutto.
    «Quel Pitt è un nostro complice. È ben pagato per recitare il ruolo che recita. Così come quella notizia. È una bufala. Ma riteniamo che in questo modo il vero W.K. si esporrà maggiornamente, sentendosi al sicuro.»
    Questa non ci voleva. Maledizione.
    La mia mente, che nonostante agisca in nome di Dio so trattarsi di una mente criminale, in lampo ha analizzato tutto. E se anche i più non avranno capito la mia sciagurata posizione attuale, sono dannatamente fregato.
    Credo di aver saputo abbastanza, e per ora Arthur Pitt è, purtroppo, al sicuro. Devo assolutamente tornare a casa a riflettere. La mattinata è stata molto utile. Ma dannazione.
    Colgo l’occasione per farmi offrire da Hoplins la colazione che ho fatto: brioches e cappuccino, tradizionale per me.
    Sto per alzarmi dal tavolo, quando il poliziotto mi ferma.
    «Quello che ti ho detto è stata una chiacchierata fra amici, e tu non sai nulla. Ovviamente…»
    Annuisco sforzando un sorriso. Ma ho ben poco da sorridere, in questo momento.
    Mi allontano turbato dal gelo, ma forse io voglio credere che a turbarmi sia il gelo e non i miei maledetti pensieri che sinistri risuonano nella mia testa, prendendo la forma delle parole di Hoplins. Stavo per fare un passo falso e incastrarmi da solo. È andata bene.
    Devo stare più attento.
    Sento la necessità di uno psicologo.
    E di uccidere: uccidere Arthur Pitt.
    Anche se ora la cosa sarà dannatamente difficile.

    Mi siedo alla scrivania ma sono scomodo, la sedia è dura per pensare.
    Mi lancio sul divano ma sono scomodo, è troppo soffice per concentrarmi.
    Mi appoggio al muro ma sono scomodo, non posso stare in piedi a riflettere.
    È l’agitazione che mi rende così insofferente. Il meglio che posso fare è coprirmi, uscire di casa e sedermi sulla panchina più vicina al mio portone.
    E così faccio.

    Hoplins mi ha visto vicino a Collis.
    So che la notizia di Pitt è tutta una montatura per incastrare W.K., che guarda caso sono io.
    So anche che ora Collis è osservato speciale, e che ad occuparsene e Hoplins stesso.
    E infine, so che la polizia ha una teoria sul caso relativamente corretta.
    Arrivo quindi alla prima domanda: come uccido Collis, sorvegliato da Hoplins, senza che Hoplins mi scopra? Rifletto invano, il freddo sembra congelarmi le idee tanto da non farle muovere nella mia testa.
    E mentre sono lì seduto sulla panchina, il sangue mi si gela nella vene, il cuore è come se smettesse di battere.
    Lontano, vedo un puntino che si fa sempre più grande. E lo riconosco. È proprio Hoplins. Che diavolo ci fa qui? Cammina con aria circospetta.
    Velocemente mi alzo e mi avvicino ad un gruppo di persone che sono lì vicino e fingo di chiedere informazioni. Con questo espediente, riesco a scomparire dal suo campo visivo e contemporaneamente a tenerlo sotto controllo.
    Cammina piano, ogni passo aguzza un po’ di più la vista. Ora è arrivato di fronte al mio portone. Vi entra. Lo vedo citofonare, credo stia suonando proprio al mio campanello. Non ottenendo risposte, si allontana. Credo che se ne sia andato quando lo vedo ritornare, sempre cauto e lento, camminando nella direzione opposta.
    È chiaro: sta monitorando la zona, attendendo che io ritorni a casa, avendo capito che sono fuori.
    «Mi sente, signore?» mi chiede poi la donna a cui avevo chiesto informazioni, vedendomi svanito.
    «Grazie, grazie.» rispondo senza un filo logico e mi allontano il più velocemente possibile.
    Ho avuto un’idea.
    Mi apposto abbastanza lontano, in modo che Hoplins non mi possa vedere.
    Prendo il telefono che tengo in tasca e cerco in rubrica il numero del poliziotto. Fortunatamente lo devo aver memorizzato in qualche occasione. Aggiungo il prefisso in modo da rendere la telefonata anonima. Prendo fiato e cerco di rallentare il battito.
    Io sono freddo.
    Io sono freddo.
    Mi ripeto.
    Ho in mente un piano. Pericoloso, ma è l’unico possibile.
    Premo il tasto di avvio chiamata e attendo. Subito ottengo una risposta.
    È la mia unica occasione, devo giocarmela bene. Faccio la voce grossa, più grossa che posso. Devo sembrare arrabbiato. Molto. Imbestialito. E anche di più.
    «Hoplins, dove diavolo sei?!»
    «Ma chi è?» domanda quello interdetto.
    «Ma come chi è? Come ti permetti?» mi sento convincente. Prendo coraggio. Mi sento diventare nuovamente gelido. Ma ora non per paura: io non ho paura. «Sono il tuo capo! Dove diavolo sei?!» insisto.
    «Ma capo… gliel’ho detto…»
    «Che diavolo mi hai detto?!»
    «Ho un sospetto, una pista per W.K…»
    «E in base a cosa?» ho quasi finito il fiato. Il gelo non mi aiuta di certo.
    «Una testimonianza diretta ed una esterna.»
    «Fai presto allora, presto!» riattacco e prendo fiato.
    Attendo qualche secondo, immobile, piegato sulle ginocchia.
    È andata bene. Ho capito tutto, credo. E probabilmente sono ancora in tempo. Ma quell’Hoplins non è proprio stupido come pensavo.

    Rientro in casa non appena lo vedo allontanarsi.
    Credo proprio di aver capito tutto, dopo la telefonata, che francamente ritengo essere stata un colpo di genio, degno del più divino criminale. Io non ho rivali, e ne sono sempre più convinto.
    La mia deduzione è stata che Hoplins, dopo avermi visto sulle tracce di Collis, si sia informato sul mio conto, e probabilmente qualcuno doveva avermi visto sulla scena del delitto di una delle altre sei vittime precedenti, cosa impossibile da escludere, anzi probabile. “Una testimonianza diretta ed una esterna”: la mia teoria mi pare l’unica che dia un senso a questa affermazione. Ho anche potuto capire che il capo di Hoplins ancora non è stato informato dell’intenzione dello stesso di pedinarmi. Se così fosse, se Hoplins venisse messo a tacere, la polizia non potrebbe sapere nulla di questa pista che segue.
    Ripenso al pomeriggio, alla geniale idea della telefonata e decido di applicarla nuovamente.
    «Pronto, sono un parente di Daniel Hoplins, e da questa mattina quand’è uscito di casa non è più tornato. Sapete nulla?»
    «No, ci dispiace.» mi rispondono dalla centrale di polizia.
    Sono stato fortunato. Hoplins non è passato dalla centrale in giornata.
    Cordialmente ringrazio e saluto.

    È sera. Il mio orologio segna le diciannove e trenta. Sono ormai arrivato sotto casa del mio amico poliziotto. Citofono, non rivelo la mia identità o in casa potrebbe avvisare la moglie del mio arrivo.
    «Scendi, ti devo parlare.» dico rauco al citofono.
    «Ma chi è?»
    «Scendi.» fantastico, non mi ha riconosciuto, non può aver detto nulla a nessuno riguardo a chi incontrerà.
    Lo sento camminare lento nelle scale. La mia lama è pronta. Fredda nel polso, ma ora non sono agitato. Devo solo fare ciò che ho sempre fatto. Ciò che mi viene meglio. Uccidere.
    «Steven, sei tu!» mi dice non appena mi vede, ed è ancora sulle scale.
    Io non rispondo, fingo di accasciarmi a terra, come per un malore. Mi si avvicina subito.
    «Cos’hai Steven?» mi chiede portandomi un braccio dietro la testa.
    «Sei stato bravo, con le tue intuizioni…» sussurro in tutta risposta.
    Non ha tempo di capire ciò che ho detto. Dalla manica del cappotto faccio apparire la mia lama assassina.
    Ed è un attimo.
    Un istante fulmineo.
    E si accascia nella pozza di sangue che subito si forma ai suoi piedi.

    Rientro in casa. Poso la lama su un pezzo di carta. Rimuovo la protezione che metto sempre nella manica.
    E come le altre volte, cestinate queste due prove, la lama torna pulita, il cappotto nemmeno si accorge dell’accaduto.
    E anche l’unico che pareva avere capito qualcosa sul caso W.K. non può più dire la propria opinione. Hoplins è morto. Settima vittima.
    Arthur Collis sarà il prossimo, e questa volta non avrà nessuno in sua protezione.
    Perché la volontà di Dio non può essere ostacolata da nessuno, tanto meno da questi stupidi poliziotti, buoni solo a giocare a guardie e ladri.
    Dio non ha ostacoli.
    W.K. neppure.

    Edited by the jok3r - 16/12/2010, 22:51
     
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    grazie =)

    presto anche il terzo capitolo!!
     
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  12. the jok3r
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    CAPITOLO #3 - DELIRIO DI ONNIPOTENZA

    Da alcuni giorni mi riecheggia nella mente quel nome, Hoplins… Hoplins… Hoplins…
    Come può essere arrivato sino a me? Come può aver capito di dover informarsi sul mio conto? Qualcuno, in giro, deve avere intuito la strada da seguire. E se quel qualcuno scopre che dopo aver collaborato con Hoplins, Hoplins è morto… presto tutta la polizia sarà sulle mie tracce.
    Devo uccidere per farmi passare questi tormenti.
    Arthur Collis è ancora per strada, sereno. Ignaro dei pericoli che ha corso. Ignaro che per lui, la polizia ha perso un agente, e io un amico. Ma è stato necessario, e non mi pento.
    La volontà di Dio me l’ha richiesto. Io ho solo obbedito.
    Questa mattina tutti i giornali e i notiziari aprivano con la notizia di maggior rilievo: “W.K. colpisce: questa volta la vittima è un agente della polizia.”
    Sono famoso. Mi piace la cosa.
    Mi piace la sensazione quando, camminando fra la folla per strada, so di essere l’uomo che tutti cercano e che nessuno può trovare. Mi piace avere qualcosa di grosso da nascondere. Sentirmi l’eletto in una massa di comuni mortali, specie da cui sento d’essere ben distinto.
    Io sono progettato da una volontà superiore, ed è il momento di metterlo in mostra.
    Forse uccidere un poliziotto è stata una caduta di stile.
    Me lo ripeto più volte sino a convincermene. Devo rialzare la testa. Far in modo che a preoccuparsi di essere nel mirino di W.K. siano nuovamente gli uomini di chiesa, chi professa una parola troppo elevata per i propri interessi.

    Osservo la mia lama assassina abbandonata da alcuni giorni sul tavolo. È l’ora di rimetterla in uso.
    Dopo avere ucciso Hoplins, per tre giorni ho pensato di scomparire dalla scena. Ora è il momento di rientrarci prepotentemente. Non ho voglia di pianificare come mio solito.
    Non ne ho proprio voglia.
    Delirio di onnipotenza, forse, o sicurezza nelle proprie capacità.
    Fine: W.K. non pianificherà più nulla.
    E oggi tutta Londra, tutta l’Inghilterra, tutto il mondo lo saprà.
    Prendo la lama, indosso il cappotto, nascondo l’arma fredda nella manica, attaccata al polso. Tutto come di consueto. Controllo la pistola che tengo nel fodero: è carica, mai usata. I proiettili sono tutti nel caricatore, vogliosi di uccidere. Ma spero che non sia necessario. Inserisco la sicura e la riposo nel fodero.

    Nel momento in cui esco di casa, il destino di Arthur Collis è scritto.
    Cammino fra la folla provando la sensazione che già ho descritto. Tutti sono indifferenti alla mia presenza, ignari del pericolo. Ma io, io no. Controllo costantemente tutto ciò che mi avviene accanto.
    Nevica forte, è difficile tenere gli occhi aperti. Tutto è bianco, puro. È giusto ripulire ciò che sgarra da questa perfezione. Ed è quello che ho intenzione di fare.
    La chiesa dove il pedofilo, o presunto tale, presta servizio è già in vista. Lontana, ma cammino veloce e in pochi passi ne riesco a definire con precisione i dettagli. Noto anche che la mia preda sta uscendo proprio in quell’attimo dalla porta principale.
    Meraviglioso.
    Sono stato fortunato.
    Lo seguo. Oltrepasso due pattuglie di polizia: dopo la morte di Hoplins, la città è controllata in ogni anfratto. Rimedierò anche a questo inconveniente.
    Collis si ferma a parlare con due individui. Prontamente arresto il mio passo spedito proprio di fronte ad una locandina. Fingo di interessarmi ma irrimediabilmente un occhio mi ci cade davvero. Sono sempre io l’argomento più interessante: “Polizia attaccata da W.K.: una vittima nella notte.”
    Non era notte, ma poco importa. Chissà a che ora hanno ritrovato il cadavere.
    Intanto noto che Collis si è rimesso in marcia. Bene, faccio lo stesso. Lo tengo sott’occhio. Sono a dieci metri circa da lui, forse un po’ di più.
    Poi si infila in un portone e scompare.
    Mi fermo a riflettere su come agire, ma poi ricordo ciò che mi ero ripromesso la mattina prima di uscire: improvvisare. Improvvisare sarà la mia nuova parola d’ordine.
    Senza ragionare quindi raggiungo il portone dov’è entrato il sacerdote un attimo prima ed osservo i nomi sul citofono. Collis è all’interno sei.
    Salgo le scale, passo accanto ad una donna che contemporaneamente sta scendendo. Potrebbe avermi visto in faccia. È non è un problema da poco.
    Improvvisare.
    Mi ripeto nuovamente notando di aver avuto la tendenza a rallentare il mio passo per riflettere.
    Eccomi davanti alla porta di casa del pedofilo. Il numero 6, in alto, mi indica che sono nel posto giusto. Sul campanello il nome non c’è. Suono alla porta di casa. Solo dopo alcuni attimi qualcuno viene ad aprirmi.
    È Collis, in persona. Ho un sussulto. Cosa faccio? Lo uccido così? La lama fredda batte sul polso, ricordandomi di essere pronta ad agire.
    Improvvisare.
    Penso nuovamente.
    «Sacerdote!» esclamo. Quelle parole mi sono uscite di bocca di loro propria iniziativa. Non le ho volute dire io. Poco male. Improvviserò. «Ho bisogno di parlarle.»
    Mi fa entrare nell’appartamento e mi conduce in un salotto dove mi siedo su una sedia, proprio di fronte a lui.
    Mi guarda.
    Si, ha proprio gli occhi del pedofilo. Lo sguardo perso nel vuoto, le iridi scure. Ha il volto della cattiveria. Sarà la vittima con cui mi divertirò di più.
    «C’è qualcuno in casa? Disturbo?» mi assicuro di non trovare brutte sorprese.
    Fortunatamente risponde come desidero. Siamo io e lui. Soli. La sua fine è segnata.
    Appena ricevo la risposta scatto in piedi e lo spingo a terra, facendo ribaltare la sedia su cui è seduto. Ed una volta che è a terra lo colpisco con il gomito sul capo. Chiude gli occhi. Porto due dita proprio sotto il suo mento, leggermente a lato. Il cuore pulsa. È soltanto svenuto.
    Come desideravo.
    Non mi oriento in quella casa che non ho mai visto. Non ho pianificato nulla. Vado a tentativi, apro varie ante. Dopo due minuti in cui giro senza meta torno dalla mia vittima che è ancora a terra. In mano ho una corda, molto lunga.
    Isso nuovamente la sedia sulle gambe, ci sbatto sopra il corpo inerte di Collis e lo lego in modo che non possa muoversi. Ora sono più tranquillo, non rischio più nulla. Torno in cucina, l’ho visitata prima cercando qualcosa con cui legare la mia preda. Riempio un bicchiere d’acqua. Gelida come la neve. La neve bianca e pura che vedo cadere fuori dalla finestra.
    Sto compiendo la volontà di Dio. Dio ha scelto me per far si che quella neve rimanga candida.
    Verso il bicchiere d’acqua in faccia a Collis che di colpo rinviene. Mi guarda atterrito.
    Leggo nei suoi occhi la paura.
    Questo è ciò che W.K. vuole vedere. Che io voglio vedere .La cosa mi eccita. E molto.
    Estraggo la lama che tenevo nascosta nella manica. Gioco un po’ con il mio sacerdote pedofilo. Gli infliggo lievi ferite che non possano nuocergli troppo, ma che lo facciano soffrire.
    Aggiungere: oltre a “Improvvisazione”, la mia seconda parola d’ordine sarà “Crudeltà”.
    Delirio di onnipotenza. Lo sento, lo penso. Ma non riesco a fermarmi.
    Rido sadicamente, come un folle, un pazzo. Sto perdendo il controllo di me? No, sto solo facendo ciò che mi riesce meglio. Ciò che devo fare per progetto divino.
    Dalle lievi lacerazioni sulla pelle, Collis perde sangue. Poche gocce, ma a terra, nei dieci minuti circa che sono passati dall’inizio del mio sadico gioco si è formata una bella pozzanghera.
    Poi un inconveniente. Suonano al campanello della porta. Sento il cuore schizzarmi in gola.
    Suonano ripetutamente.
    Chi diavolo sarà?
    Improvvisazione. Penso di avere un po’ di tempo. Forse se non ottengono risposta, se ne andranno. Invece sento inserire le chiavi dell’appartamento nel chiavistello. Chi può avere le chiavi di casa Collis? Ma certo, una donna delle pulizie. Non sbaglio nell’intuizione.
    Non sbaglio mai. Corro a nascondermi dietro un muro. La porta si spalanca lentamente.
    Preciso: Collis si trova legato ad una sedia nel soggiorno, e per arrivarci è necessario percorrere un lungo corridoio e voltare a destra. E io sono appostato proprio dietro quella svolta. Inoltre lui ha la bocca bloccata da un pezzo di scotch, quindi non può gridare o avvertire del pericolo.
    Ma dall’ingresso sino al soggiorno, una leggera scia di sangue disegna il percorso da seguire.
    Sento la donna agitarsi, borbottare qualcosa. Si chiude la porta alle spalle.
    «Signor Collis, sta bene? Dov’è? Cos’è questo sangue?» mi viene incontro.
    La sento camminare. I suoi passi sono caratterizzati da un incedere discontinuo. Ha paura. È terrorizzata. Lo posso sentire.
    Sono pronto. È molto vicina. Il battito del mio cuore lo percepisco dal polso, che mi pulsa sul freddo acciaio della lama. La donna non è che a qualche centimetro da me. La vedo girare.
    Ed è un istante.
    Lei mi intravede ma non può fare nulla.
    Sferro un colpo secco, deciso, crudele. E passa a miglior vita.
    Alle mie spalle vedo Collis agitarsi impotente sulla sua sedia.
    Otto vittime, con la badante. E fra poco saranno nove.
    Nessuno nuovamente mi ha visto. W.K. non sbaglia. Non sbaglia mai.
    Basta, il gioco sta andando troppo per le lunghe. Collis sta perdendo i sensi. Ha perso troppo sangue. Ai piedi della sedia s’è formata una vera pozzanghera.
    Decido di fare un’ultima cosa prima di porre fine alle sue sofferenze.
    Corro in cucina, rovisto un po’ fra gli scaffali: trovato.
    Il sale.
    Se è davvero un pedofilo, quella sofferenza non sarà nulla rispetto a quelle che può aver fatto passare a degli innocenti bambini. Ma almeno sarà una punizione simbolica.
    Con una risata maligna verso senza badare alla quantità il sale sulle lacerazioni di Collis.
    Dev’essere una sofferenza atroce. Lo vedo agitarsi sulla sedia, contorcersi, due lacrime gli solcano il viso. E intanto rido, pervaso da un senso di soddisfazione e piacere.
    Poi è tutto finito. Il mio gioco si è concluso.
    Lo colpisco un’ultima volta al collo.
    La volontà di Dio è compiuta. Per mia mano. Io sono l’eletto.
    Delirio di onnipotenza, lo so ma non me ne interesso.
    Ripulisco tutto ciò che ho toccato con attenzione maniacale.
    Nuovamente nessuna impronta o traccia. Nessun indizio di alcun tipo.
    Io sono W.K., io sono perfetto.

    Mi allontano nel gelo polare della giornata.
    Fa più freddo del solito, ma vedo che la neve che cade è più bianca di sempre. È merito mio forse, o più probabilmente è solo una mia impressione.
    Ma sono felice, sadicamente felice, malignamente felice.
    Io esercito la volontà di Dio, perché la volontà di Dio è la mia volontà.
    Forse sto iniziando a ritenermi Dio.
    Delirio di onnipotenza.
    Lo so e non me ne interesso.
    Sono troppo perfetto in ciò che faccio per interessarmi a tali sciocchezze.
    Io sono W.K., improvviso e sono crudele.
    E mi piaccio.
    Mi piaccio dannatamente.

    È notte fonda. La mia sveglia digitale mi dice che sono le tre di notte.
    E io non riesco a dormire. Ripenso allo sguardo perso nel vuoto di Collis prima di morire. Mi rilassa.
    Rifletto: se uccido con una qualche logica, come ho fatto sino ad oggi, la polizia può risalire a me ripercorrendo a ritroso tale logica. Devo quindi abbandonare ogni schema. L’improvvisazione è davvero la via da seguire. Infondo, sono troppo perfetto per sbagliare, anche improvvisando.
    Io non sbaglio.
    Fendo il buio con gli occhi, lancio uno sguardo attraverso lo spiraglio lasciato dalle scure chiuse della finestra: non nevica più, direi.
    Domani la polizia avrà due nuove vittime su cui indagare. Ma nuovamente non giungeranno a nulla. Nulla più del consueto, o forse sì: capiranno la mia crudeltà, la mia nuova imprevedibilità. Capiranno che nessuno può fermarmi. Che non ci devono provare. O Hoplins avrà compagnia.
    Poi ho un sussulto: una donna mi aveva visto mentre salivo le scale nel palazzo di Collis.
    Maledizione!
    Quindi un minimo errore l’ho commesso, questa volta. Se gli inquirenti la interrogheranno, lei dirà per certo di aver visto un volto sconosciuto proprio in quel palazzo, proprio in quel pomeriggio. E alla domanda: “Era un ragazzo?” risponderà di sì. Poi tracceranno un identikit, e forse sapranno qualcosa di utile, per una volta.
    Avranno un’idea di cosa cercano. Forse domani mattina dovrei preoccuparmi di metterla a tacere.
    Ci penserò.
    Per il momento, mi limito a rivedere nella mia testa l’espressione terrorizzata di Collis prima di morire, e con il sorriso stampato sul volto, chiudo gli occhi.
     
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    W.K è pazzo e sadico,altro che Light lol
     
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  14. the jok3r
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    sisi, beh, death note mi piace ma mica voglio farlo uguale!! cmq nn è sempre così, diciamo k in qst mio thriller ho cercato di far trasparire abbstanza le mie idee, sebbene nn mi ritenga un pazzo come il buon WK, e ritenendo la pedofilia il reato più vile di qst mondo ho voluto molto approfondire la punizione del pedofilo...
    cap così macabri non ce ne saranno altri =)

    il cap4 è già pronto, lo posterò presto :)
     
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  15. m4rc0l1n0
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    Mi ha colpito :sisi: complimenti ^^
     
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243 replies since 13/12/2010, 21:40   4753 views
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